Paradiso: il lungo addio a Beatrice

Massimo Cacciari, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Nell’ultima cantica Dante si avvicina alla causa suprema della volontà divina. E restituisce nuovo senso all’amore

Possiamo dire in che cosa essenzialmente consista la straordinaria esperienza che compie l’homo viator, Dante, anima e corpo, la figura Dante, per dirla con Auerbach, nel Paradiso? Che cosa giunge a conoscere facendone reale esperienza? Ciò che il mondo «veder non può de la divina grazia» (XX,71). Per quanto «il fondo» di quest’ultima debba restare, in hoc saeculoocculto a qualsiasi sguardo finito, tuttavia ora essa si manifesta in tutta la sua straordinaria, paradossale potenza: chi, «giù nel mondo errante» (ivi, 67), la crederebbe capace di tanta misericordia? Ecco raccolti, nel ciglio dell’Aquila, esempi di somma giustizia, non solo l’humilis imperatore, Traiano, ma anche il troiano Rifeo, iustissimus perché caduto a difesa della sua città. Due pagani, innalzati nella Roma celeste. L’Amore compie il prodigio: vince ogni misura del giudizio e della volontà. Supervince ogni dottrina e ogni norma: ha fatto contemporanei a Cristo nello spirito Traiano e Rifeo, sconvolgendo l’“ordine del Tempo”, poiché di loro ha amato la perfetta giustizia. L’Amore «vince la divina volontate » (ivi,96). L’universo e il suo ordine sono appesi alla Sua volontà, ma è l’Amore ad avere sopra i Suoi atti la parola decisiva. Theos Agape. Dio ama la sua creatura più della propria volontà o del “metro” della propria giustizia, che non dovrebbe conoscere eccezione. Paradosso supremo: Dio agisce sperando la nostra salvezza, e perché si realizzi si lascia vincere da Amore. 

Potremmo concepire che questo supervincersi divino valga, escatologicamente, per tutti? Dante non lo ammetterebbe. L’Inferno è lì, spietatamente, a mostrarlo. E tuttavia come non avvertire che col Paradiso la domanda, il dubbio divengono inarrestabili? Lungo tutto il cammino dell’ultima Cantica corre un’eco lontana e potente, che contraddice quel “lasciate ogni speranza” e rende drammatica l’intera teologia dantesca. Tra Amore, Volontà, Giustizia nulla è “sistemabile” una volta per tutte. Amore tende a “precipitare” giù verso ogni misero smarrito nella selva – le Donne ne sono l’immagine e le messaggere. Ma Volontà deve resistere al suo impetus, seguire alle ragioni che la Giustizia avanza. Nessuna regola certa, sicura potrà stabilire a priori quale forza debba prevalere. Perché è prevalso Amore nel caso di Dante? Possiamo rispondere soltanto con congetture. Certo è soltanto che nel Paradiso si afferma che Amore è la sostanza di Dio, e che perciò la sua energia può giungere all’excessus e vincere tutto. Ma come si esprime tale Amore? Quale ne è il Verbo, che saremmo chiamati a comprendere per metterci nella sua sequela? Dio è somma Causa, Causa amante, finale e efficiente a un tempo, Amore incondizionato, e dunque libero da ogni necessità, Causa da nulla causata. Causa che si effonde nella totalità dei suoi effetti, senza che mai la sua potenza scemi. Effusivum sui: perfetto Dono, anzi: Per-Dono. Potremmo mai quaggiù esserne capaci? No — ma possiamo amarlo. Possiamo giungere ad amare questo Amore che è perfetta gratuità del donare. Anzi, non possiamo non amarlo nel momento in cui ne intuiamo la sostanza. Non amarlo equivarrebbe, infatti, a non amare l’essere incondizionato e libero, a non volere anche noi essere Causa a sua immagine. Se giungiamo a intelligere la sostanza dell’Amore divino, la nostra stessa mente è perciò costretta ad amarlo. L’agire del Suo Amore è sempre actu, in atto, come il nostro non potrà mai essere, e tuttavia se amiamo avendolo compreso, se il nostro amore è, in questo senso, intellectualisanche noi saremo davvero agenti, partecipi di quell’Agire incondizionato e libero, di quell’essere pura Causa, che coincide con l’Amore divino. Agenti in quanto mossi dal fine di raggiungerne la potenza – cammino interminabile, lungo il quale, però, crescerà il nostro amore, sempre più chiara si farà la intellezione della sua sostanza, la volontà di esserne espressione, per quanto finita. Più forte è perciò l’amore in itinere dell’Amore del beato, che ha finalmente “conquistato” il Paradiso.
Beatrice spiega a Dante la natura superessentialis di 
questo Amore, di come esso si sia dispiegato prima del tempo e al di fuori di ogni tempo, narrandogli la creazione dell’Angelo (IV,13-18). Dio non l’ha voluta «per avere a sé di bene acquisto»; nulla manca alla Causa, nulla al suo splendor, che oltrepassa ogni lumen quanto l’eterno è «di tempo fore»; da nulla può esser “compreso” ciò che in sé tutto abbraccia. Sussiste la Causa, unica vera Sostanza – e tuttavia proprio nel suo eterno sussistere, nel suo Nunc stans, essa si apre, si effonde, liberamente, per sua volontà (anzi: per quella volontà che è  vinta da Amore), e dona vita a nuovi amori, a nuovi spiriti amanti. La Sostanza non è “gelosa” del suo essere-eterno; la sua stessa eternità sussiste aprendosi, rivela il proprio splendore illuminando, la propria libertà liberando. Non si ama in verità che donando nella forma della perfetta gratuità – ma non basta: non si comprende la sostanza di questo Amore se non creando nuovi amori. L’Amore vuole che nuovi amori nascano, vuole che chi accoglie il dono si trasformi facendosi liberamente amante. L’opposto, si badi!, di quell’«Amor, ch’a nulla amato amar perdona»: questo Amore vuole che si conservi intatta la libertà dell’amato, vuole si creino amori altrettanto incondizionati del suo. La Causa amante anela di aprirsi in agenti-amanti a propria immagine. Tradirebbe la propria natura se volesse determinarli. Essa si è espressa, ha parlato, ha concesso a questo uomo la grazia di poterla intendere sostenendolo attraverso eccelse guide. La ha il viator finalmente compresa? Ha raggiunto il vero intelletto d’amore? Il viator ha dovuto sprofondare nella sostanza più nascosta del suo esserci, correre il rischio di smarrirsi di nuovo lungo l’impervio cammino, per bere finalmente alla fonte della sua luce. Ora egli intende che essere agenti significa essere amanti, e che amare è donare, e che donare è aprirsi a nuovi amori, lasciare che essi liberamente si esprimano, fuori di ogni logica di scambio o reciprocità. Ora intende che amare significa soltanto volere la perfetta salus dell’amato, voler essere per lui come una grazia.
L’inseparabilità di vicinanza e lontananza che richiede l’intelletto d’Amore si esprime con pathos sublime in quel momento decisivo della Commedia in cui Beatrice è d’improvviso rapita via da Dante e compare Bernardo, un «sene», per l’ultimo passo, «a terminar lo tuo disiro»  (XXXI,65 – : ma si badi che sono ancora una volta le Donne a muovere verso Dante le sue guide: «mosse Beatrice me del loco mio»). «Ov’è ella? Subito diss’io»; la domanda che Dante intendeva rivolgere all’amata gli rimane strozzata nella gola. Beatrice è volata via, a una distanza incommensurabile, maggiore di quella tra il più alto del cielo, dove si formano i tuoni, e un occhio che stesse negli abissi del mare. Lassù, a un’estrema lontananza, Dante la vede «che si facea corona/ riflettendo da sé li etterni rai» (ivi,71-72). Ebbene, questa lontananza, che pure è reale, «nulla mi facea»: non viene annullata, ma si accorda con l’altrettanto reale vicinanza che consente la comunicazione spirituale: «ché sua effige/ non discendea a me per mezzo mista» (ivi,77-78). Beatrice ha veramente lasciato il pellegrino, destinato oltre la visione che lo attende a far ritorno alla «umana famiglia» per praedicare 
Verbum. Ma è un distacco d’amore: l’amante Dante eternizza nella sua stessa memoria la bellezza della sua donna , bellezza che proprio nel lasciarlo si «trasmoda», e nella lontananza è prossimo a lei come mai prima. Ella l’ha tratto «di servo… a libertate» (ivi,85); questo compie infatti Amore: libera nuovi amori, ci rende agenti-amanti, amanti l’altro per farlo libero, amanti la speranza di libertà che costituisce l’anima e la sostanza dell’essere di ciascuno. Questa è la grazia che Beatrice gli rivela pienamente ora che vola al suo cielo, ora che è lontana. Da questa stellare lontananza, il suo riso è prossimo all’anima di Dante, fatta «sana» da lei, di una prossimità inseparabile. «Così orai; e quella, sì lontana,/ come parea, sorrise e riguardommi» (ivi,91-92, c.n.).
Dante rivive, ri-corda, l’intera sua vita in questo Riso insieme alla missione che ancora lo attende. È pronto ora a incontrare la Donna, Maria, che esprime lo stesso Amore di Dio. Beatrice l’ha fatto libero e amante. Ella resterà nel più profondo della sua anima, drammatica sin-fonia di vicinanza e lontananza estreme.

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Purgatorio. Elogio della vita imperfetta

Melania Mazzucco, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Nel luogo intermedio per eccellenza il Poeta incontra anime come la sua in lotta contro l’eterno oblio

Il Purgatorio ci aspetta. È un luogo insieme familiare e straniante. Chiunque, in qualsiasi cosa creda, e anche se non crede a nulla, riesce a immaginare l’Inferno, sia esso  ultraterreno oppure condizione già scontata su questa terra. E persino il Paradiso, per avere sperimentato la beatitudine almeno in un attimo felice dell’esistenza. Invece il  Purgatorio somiglia talmente alla nostra vita – o la nostra vita al Purgatorio – da non essere immaginabile se non come una prosecuzione della stessa, aggravata  all’inquietudine di averla mancata, di aver sbagliato qualcosa, e che sarebbe bastato poco per liberarci ed evitare di rivivere i nostri errori.
Così diventa una specie di appuntamento fastidioso. Già la parola scoraggia, condividendo la radice col verbo che nell’italiano moderno ha quasi perso il significato di lavare, depurare e purificare (purgare viene dal latino purgāre/purigāre e questo da purus), per  riferirsi ormai solo a un’azione forzatamente escrementizia. E il sostantivo suona ancor più sinistro. La purga è la cura depurativa e lassativa, la punizione dei bambini riottosi, e anche la violenza che gli stati autoritari attuano nei confronti delle persone considerate pericolose – i dissidenti, gli oppositori e i nemici. È perfino sinonimo di quarantena. Dante propone subito il Purgatorio come destinazione – del viaggio della sua vita, non del viaggio letterario della Commedia. E infatti lo rappresenta come un’isola, da sempre calamita di  fantasie di rigenerazione e rinascita. Questa certezza lo accompagna fin dalla spiaggia («per tornar altra volta / là dov’io son, fo questo viaggio», dichiara subito). E poi lungo la
salita del monte – a tronco di cono e terrazze, come la Torre di Babele – in cima al quale lo attende il paradiso terrestre. Che vedrà, descriverà, annuncerà con parole sublimi. Ma in cui non potrà né restare né tornare, per molto tempo. Nel Purgatorio, invece, soggiornerà ancora. 
E quindi tende a osservare e ascoltare tutto – paesaggio, alberi, creature – con  commozione partecipe. Soste, esitazioni e indugi gli procurano lungo il percorso svariati rimbrotti da parte di Virgilio. Ma Dante non rallenta il passo per la fatica fisica dell’erta e in fondo nemmeno per la curiosità del sito e delle penitenze (per quanto provvisorie, sempre affliggenti: occhi cuciti col fil di ferro, corse a perdifiato, salmodiare legati proni con la faccia a terra…): perché in realtà sfila davanti al suo passato – la giovinezza, in cui si rispecchia con malinconia – e al futuro che lo aspetta. Se potesse fermarsi, potrebbe forse ancora cambiarsi, e migliorare il suo destino. Ma il Purgatorio è appunto un luogo intermedio, di passaggio, come la vita, e non gli è dato. Non è un caso che la cantica si apra e si chiuda sull’acqua – elemento inafferrabile, proteico, sfuggente. La parola “acque” figura nel primo verso (la prima similitudine, nel preludio, paragona l’ingegno a una navicella che deve alzare le vele per correre “migliori acque”), e la parola “onda” nel quart’ultimo (Dante, dopo il “dolce bere” è pronto all’ascesa). Acqua che divide e congiunge, lava e cancella. Acqua dell’oceano che circonda l’isola. Acqua del Letè, che purifica corpo e memoria. Acqua dell’Eunoè, che predispone a salire alle stelle. Dante incontrerà dunque anche nel Purgatorio, come all’Inferno, le anime che lo abitano. Benché debba essere particolarmente affollato, prevalendo sempre la medietà sull’eccesso, con poche, in realtà, il pellegrino entra in contatto: appena una trentina. Gli somigliano, ci somigliano. Sono state persone imperfette ma non malvagie. Alcune, quelle bloccate nell’Antipurgatorio, sono morte troppo presto, e non è di per sé una colpa: scomunicati, negligenti, pentiti in extremis, ammazzati. 

Le altre non hanno vinto i vizi che assillano gli esseri umani – la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la prodigalità, la gola, la lussuria. Vizi che tutti o in parte affliggono anche ognuno di noi. Alcuni di essi – come la passione del papa di Torso (Martino di Tours) per «le anguille di Bolsena e la vernaccia» – muovono a un complice sorriso. Insomma, sono come noi, siamo noi. Dante si vede già camminare dietro il muro di fiamme coi lussuriosi, e il pensiero non lo sconforta. Dante le lascerà parlare, queste anime ammansite dalla certezza di essere state, nonostante tutto, perdonate. Ascolterà le loro storie – talvolta con pazienza (Bonconte da Montefeltro si dilunga, ma il poemetto autobiografico sulla sua morte si lascia gustare come un racconto a parte).
Tuttavia accade che la sua attenzione e la nostra divergano. Il Purgatorio di Dante è vincolato al tempo. Non tanto però, come rimarcano i commentatori, perché riappaiono nella cantica le notazioni cronologiche, le osservazioni sulle ombre e sulla posizione del sole che scandiscono il trascorrere del giorno (e così precise che si può perfino datare l’ambientazione a una mattina specifica del 1300). Perché il Purgatorio – di tono così diverso dal crudo, selvaggio realismo degli inferi, e dal lirismo terso dell’empireo – è nella prima metà una specie di giornale locale. Ogni tanto si affaccia un protagonista della Storia grande, nazionale e internazionale (quasi sempre una presenza sorprendente, come il pagano e suicida Catone Uticense, l’imperatore Manfredi, il re Ugo Capeto, o il papa Adriano V), ma i più sono arroganti signorotti di provincia e condottieri che non compirono imprese memorabili, oppure personaggi pittoreschi e celebrità minori della Toscana. Erano stati suoi amici.
Ci sono il cantore Casella fiorentino, che dietro sua richiesta, per consolazione, intona dolcemente la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, composta da Dante dopo la morte di Beatrice; Belacqua, il bottegaio che fabbricava liuti e chitarre, e il giudice Nino Visconti, nostalgico della figlia e afflitto dalla dimenticanza della moglie, perché “in femmina” il fuoco d’amore dura poco se non alimentato da occhio o tatto. Il quinto canto è 
quasi cronaca nera. Dante e i suoi lettori conoscono tutti, per questo lui non ha bisogno di spiegare troppo. «Io son la Pia», sussurra la donna uccisa dal marito che lo prega di ricordarsi di lei, e il nome di battesimo, e i riferimenti riferimenti geografici a Siena e alla Maremma bastano a identificarla, perché l’eco del suo omicidio è ancora fresca nella memoria. Ma ci sono, soprattutto, tanti scrittori. Ai quali viene concesso uno spazio inaudito. Oggi stupisce il rilievo di Stazio, poeta latino ormai riservato agli specialisti, ma al tempo di Dante (sebbene la sua produzione fosse nota solo in parte) considerato  maestro di epica secondo soltanto a Virgilio. La truculenta Tebaide e l’Achilleide incompiuta Dante aveva letto avidamente tanto da conoscerne a memoria similitudini ed episodi. Così non solo lo gratifica di una biografia completa di curriculum, ma affida a lui il compito di istruirlo sulle cause dei terremoti che squassano il monte e sui rapporti fra l’anima e il corpo. E a lui fa proferire l’elogio di Virgilio e dell’Eneide – mamma e nutrice 
di tutta la letteratura successiva e maestro di Dante stesso. Forse Dante credeva alla leggenda della conversione segreta di Stazio al cristianesimo, o forse no. Certo aver scelto due poeti morti da più di un millennio come guide verso la salvezza è una professione di fede nella poesia.
A Guido del Duca che gli chiede chi sia, risponde con modestia: «Il mio nome è poco noto». E proprio mentre minimizza la sua fama (e anche la sua origine, di cui pure era fiero, riducendo l’Arno a un “fiumicello” qualsiasi) acquista significato la preghiera della Pia, ascoltata alcuni canti prima: «ricorditi di me». Questa opposizione fra rinomanza e oblio, questa contraddizione fra desiderio disperato di immortalità artistica e fede che l’unica immortalità possibile sia quella in Dio, ci rende più vera e più vicina la Commedia – un monumento altrimenti troppo immenso per la nostra comprensione. E più vivo l’autore, il massimo poeta nostro e di ogni tempo, ma simile a tutti gli scrittori di questo mondo, e a tutti gli uomini e le donne che vorrebbero essere qualcosa, lasciare una qualunque memoria di sé, e quasi sempre sono invece un fioco bagliore che subito si spegne alla luce fissa delle stelle. Solo nella cantica più personale e sommessa, il Purgatorio, un segreto così bruciante poteva essere confidato. 

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Lezione sulla nostra eterna Commedia

Alberto Asor Rosa, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Il male e l’amore, la morte e la poesia la conoscenza come salvezza. Ecco che cosa continua a dirci Dante

La Commedia di Dante narra, — e ragionatamente descrive e interpreta: bisogna tener  presente fin dall’inizio questa distinzione — il viaggio che il Poeta compie nei tre regni dell’Oltretomba, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Siccome colpa, condanna e perdizione, pentimento e purgazione, ricompensa e salvazione, rappresentano — non c’è ombra di dubbio — i tre possibili destini umani — ieri, oggi, domani, — il compito che il Poeta ha deciso di assumersi è quello di toccare, esprimere, cantare tutte le possibili — reali, non solo potenziali, potenziali, non solo reali — condizioni riconducibili alla storia eterna dell’uomo. E cioè: Dante parla, com’è ovvio, non potrebbe esser diversamente, di quello che gli era noto, di quello che la sua esperienza personale, vivente, gli aveva consentito di conoscere e sperimentare, ma anche di quello che la sua immensa cultura gli
metteva a disposizione.
Ma nell’essenza racconta, per grandi squarci analogici, anche la nostra storia, la storia presente, quella futura, quella dei nostri figli e nipoti, e dei nostri posteri più lontani, e le logiche che la dominano e continueranno a dominarla. Faccio un esempio, forse meno scontato del solito. L’interrogativo con cui nel suo viaggio ultraterreno Dante si misura riguarda il male: origini, pervasività, perfino fascino insospettabile e potente del male sull’uomo e sulle sue scelte e sui suoi comportamenti. Una risposta la troviamo nel Canto XVI del Purgatorio (attenzione: nel Poema, duecento canti, il XVI del Purgatorio rappresenta quasi il centro esatto: vuol dire che l’argomento che vi viene trattato è considerato da Dante di estrema importanza). Ne è protagonista Marco Lombardo, dignitoso cortigiano del secolo precedente (una generazione, dunque, prima di quella di Dante).
Dante affronta con lui l’argomento cardinale, quello che fonda, come accennavamo, l’impianto stesso della Commedia e spiega in fondo come il mondo è fatto: da dove viene il male? Chi ne è davvero responsabile? Come gli si può far fronte? La risposta di Marco alle domande di Dante è lunga e complessa. Ne riassumo la parte essenziale, a partire da queste sue parole (cito dall’edizione di Giorgio Inglese, Carocci):
«Voi che vivete ogni cagion recate
pur suso al cielo, sì come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto».
(Purg. XVI,vv. 67-72).
E cioè (ammesso che in due parole si possano spiegare alcuni versi danteschi): l’uomo sulla terra è messo continuamente di fronte a scelte fra bene e male e ha in sé, calate in lui dall’alta volontà divina, tutte le potenzialità e gli strumenti necessari per fare una scelta giusta. E quindi: 

«Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo
e non natura che ‘n voi sia corrotta».
(ivi, vv. 103-105).
Il “libero arbitrio” (così Dante lo definisce qui con una precisione assoluta le cui conseguenze arrivano fino ai giorni nostri) è uno degli attributi umani fondamentali: se l’uomo non ne fa uso, la responsabilità è tutta sua (allora come oggi) e le conseguenze possono essere catastrofiche.
Questo principio — la libertà delle scelte che hanno portato tutti i protagonisti lì nelle diverse scansioni della Commedia — è evidentemente fondativo, ma si muove ancora ai margini, nelle premesse, direi, del “Sistema Commedia”. La domanda, che sviluppa e chiarisce ancor di più il “sistema” è: cos’è che fa di ogni transito nel poema un messaggio destinato a durare nel tempo? La risposta sarebbe in un certo senso semplice: la Poesia; ovvero quella forza di costruzione espressiva e di comunicazione pervasiva, che ha fatto nel corso dei secoli di ogni terzina del Poema un interlocutore per noi non logorabile dal tempo. Il discorso sarebbe sterminato: se ne può soltanto indicare, sommessamente, una delle porte d’ingresso. L’insieme delle difficoltà e il patrimonio pressoché indicibile delle risposte si chiariscono man mano che il Poeta procede nel suo viaggio, e si arricchiscono smisuratamente, nei limiti delle “umane posse”, quando raggiungono il loro culmine, nel Paradiso. Il Paradiso è la cantica della salvazione e dunque della conoscenza: è comprensibile che per Dante i due aspetti siano strettamente intrecciati (sarebbe straordinario riuscire a capire se anche per noi lo siano). Anche lassù, del resto, la conoscenza per l’uomo non è destinata a raggiungere mai l’assolutezza e la completezza che in teoria quella imprevista e imprevedibile continuità ci garantirebbe. Infatti, quando Dante giunge finalmente a contemplare il mistero dei misteri, la Trinità, la conoscenza intesa in senso umano finisce e subentra una visione la cui portata è senza
limiti. Si può in quel momento conoscere il tutto, ma non è possibile raccontarlo con parole umane: 
«Da quinci innanzi (da qui in poi) il mio veder fu maggio  (fu di gran lunga più esteso e profondo) / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede: / e cede la memoria a tanto oltraggio».
(Par. XXXIII, vv. 55-57).
Ma questa incompletezza, per così dire, pertiene  alla dimensione strettamente umana — “normale”, si potrebbe dire — della conoscenza: in realtà coincide qui con un’assolutezza incondizionata e senza limiti, cioè con quella conoscenza che pertiene all’assoluto, e cioè non ha né limiti né confini. E appunto: quello di cui Dante fonda la sua gigantesca costruzione è l’ipotesi, il messaggio che esista un’idea di conoscenza senza limiti né confini. Ma, al tempo stesso, il Poeta ha (e mette in opera) la consapevolezza delle infinite, estreme possibilità che una posizione trascendentale come questa gli offre e gli impone. Scrive all’inizio del Paradiso, quasi come premessa metodologica e insieme avvertenza ai lettori:
«Trasumanar significar per verba
non si poria: pero l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba».
(Par., I, vv. 70-72).
Ossia (sempre più approssimativamente): “trasumanare”, ossia andare al di là dei confini umani, che sono i nostri, — di tutti noi viventi intendo, di qualsiasi fede e convinzione siamo — non sarebbe possibile spiegarlo, rappresentarlo mediante parole umane: e perciò occorre ricorrere a forme analogiche, espressive. Sono da considerarsi sufficienti per coloro cui la grazia divina e i suoi meriti hanno concesso di “trasumanare”. Così la Poesia, appunto, riaccosta e rende visibile e comprensibile il rapporto, altrimenti incomunicabile,
fra assoluto e vivente. Quello che Dante dunque ci dice con la Commedia, letta da cima a fondo, è che esistono possibilità che stentiamo a capire se ci arrestiamo alle soglie delle cose, dei pensieri, dei desideri e delle nostre personali attese: se seguiamo il Poeta nel suo percorso, da cima a fondo, scopriremo qualcosa che all’inizio non sapevamo neanche di voler cercare.
Facciamo ora un (lungo) passo indietro. Dante giovane inizia come poeta lirico d’amore con la Vita nova, operetta di prosa e poesia. Protagonista ne è Beatrice, gentildonna fiorentina, da lui appassionatamente amata, ma senza superare i confini della più spirituale riservatezza. Ma amata, voglio dire, intensamente e umanamente amata, come un gentiluomo di tarda età comunale poteva amare la sua principessa, la sua “domina”. Ora, è a Beatrice che il Poeta attribuisce nella Commedia il compito di guidarlo, dall’uscita dalla terrestrità fino al Paradiso, aiutandolo a liberarsi sempre di più dalle impurità terrene, per poter accedere all’ultima parte del suo esaltante percorso («puro e disposto a salire a le stelle», Purg. XXXIII, ultimo canto della cantica: appunto). Fino a consegnarlo alla visione dell’assoluto, di cui abbiamo già parlato: quell’entità incommensurabile e in realtà difficilmente definibile, nella quale — proprio per usare le parole usate da questa straordinaria guida — si fondono «luce intellettual piena d’amore, amor di vero ben pien di letizia, letizia che trascende ogni dolzore». (Par. XXX, vv. 40-42).
Ossia: dall’inizio alla fine del suo percorso umano e poetico Dante non dimentica nessuno dei fattori simbolico- umani su cui la sua costruzione, nelle sue differenti acquisizioni, si è edificata. Arriva a contemplare l’Empireo: ma ad accompagnarlo fin lassù, e fargli da maestra e guida, fin dove è “umanamente” possibile, torna la creatura in cui si è incarnato il suo sogno amoroso e poetico giovanile. Nell’inesauribile catena dei processi mentali e poetici danteschi qui si chiude un capitolo della sua storia, e un altro se ne apre.

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Perché leggiamo ancora la Commedia

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Marco GRIMALDI, 18 maggio 2020

1. Le parole e il mondo

Perché leggiamo ancora la Commedia? Prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta, nella quale Dante ha creato un mondo fantastico verosimile e coerente nel suo funzionamento. E la leggiamo per il suo realismo: nella letteratura medievale prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano quasi sempre fondate su schemi fissi ereditati dalla tradizione; spesso erano molto efficaci, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che conosce e rielabora la letteratura latina e volgare, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo, di cui ammiriamo soprattutto la straordinaria capacità di osservare i fenomeni naturali e di tradurli in immagini e parole. Tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. E queste sono le ragioni – importantissime – che si spiegano di solito a scuola e all’università. LEGGI TUTTO…

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Sovranisti e fascisti, giù le mani da Dante

Christian Raimo, Sovranisti e fascisti, giù le mani da Dante, “L’Espresso”, 12 luglio 2019

Esule anticompromessi. Eroe risorgimentale. Padre della patria. Nazionalista. Il sommo poeta è una figura contesa. E oggi se lo accaparrano pure i salvinisti e Casa Pound. Così la Divina Commedia è diventata una sorta di I-Ching dalla quale captare citazioni buone per qualunque causa

Il neonazionalismo ama molto Dante. Diego Fusaro lo difende da un fantomatico attacco dai globalisti. L’ultimo libro di Adriano Scianca, direttore di Primato nazionale, intellettuale organico di CasaPound, “La nazione fatidica”, dedica a Dante Alighieri una digressione molto lunga, facendone una specie di archetipo spirituale: «Colui che per primo, nell’era post-romana, ha presentito in modo eminente la natura fatidica dell’Italia è stato sicuramente Dante Alighieri, padre spirituale della patria – se mai ve ne fu uno. Giuseppe Antonio Borgese ha scritto di lui che “fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”. Più profeta che scrittore quindi».
Per gli studi danteschi c’è almeno mezzo secolo di bibliografia, soprattutto di medievisti e storici, che ha ragionato sulla ricontestualizzazione di un Dante all’interno del suo secolo, del suo contesto letterario e culturale, e non come una sorta di personaggio iconico: ogni volta esule, genio, italiano ante-litteram, o appunto profeta. Giuliano Milani e Antonio Montefusco hanno ricostruito questo passaggio chiave in un articolo del 2014 che non a caso si intitola «Prescindendo dai versi di Dante».
Ma il Dante sovranista, neofascista, è l’ultima versione di una tradizione di lettura politica nazionalista che si è sviluppata parallela e intrecciata a quella della ricezione letteraria. È stato da sempre così: del profilo di Dante si può fare l’uso più vario. Si può iconizzarlo, monumentalizzarlo in tanti modi, anche in effigie su banconote e monete per renderlo il protagonista indiscusso dell’identità nazionale: dopo la proclamazione della Repubblica sulle 500 lire, poi sulle diecimila lire, e infine oggi sui due euro.
Dante Alighieri può diventare, è diventato, un feticcio, in ogni fase politica, per ogni idea della nazione. Dante risorgimentale, Dante padre della patria, ovviamente Dante fascista. Luigi Scorrano ne “Il Dante ‘fascista’: saggi, letture, note dantesche” ha analizzato i manuali di scuola e mostrato come questo Dante fascistizzato, neonazionalista, semplificato fino a essere ridotto a feticcio, circolasse in ambienti culturali anche non appartenenti direttamente al regime. Stefano Albertini scrive in “Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista”: «Durante il fascismo non c’era un discorso ufficiale, dal Duce all’ultimo direttore didattico, che al punto di ricordare le glorie patrie, di questa stirpe di poeti, santi, eroi e navigatori, non includesse in pole position il poeta fiorentino. (…) Le ossa di Dante venivano riesumate e analizzate con gran cura con un procedimento a metà strada tra la recognitio exuviarum che precede i processi di beatificazione e l’analisi antropologico-scientifica di stampo positivistico-lombrosiano. A Ravenna si inaugurava con grande solennità nel 1936 una “zona dantesca”, e per Roma si elaborava il progetto ancora più ambizioso di un complesso monumentale dedicato a Dante, il Danteum».
Non è certo completamente responsabilità di chi da politico se ne serve il fatto che Dante venga usato persino come padre del fascismo e precursore del sovranismo. Se è evidente che l’influenza di Dante è planetaria e millenaria – Harold Bloom prende la sua opera e quella shakespeariana come centri d’irradiazione del canone occidentale – è altrettanto chiaro che in Italia, ancora più che per altri paesi, la letteratura fa la politica.
Nel libro “Petrarca, l’italiano dimenticato” (2004), Amedeo Quondam può affermare come nella costruzione di una identità nazionale modellata su quella letteraria, la figura di Dante – la sua santificazione e la damnatio memoriae di Petrarca – abbia funzionato – con le due poetiche, “petrarchismo” e “dantismo”, ridotte a poli di formalismo e impegno civile – come una specie di struttura ideologica nella quale: «Dante politico, Dante padre dell’identità nazionale, Dante filosofo e profeta, Dante forgiatore di una lingua viva: il poeta e letterato, anzi letteratissimo, Petrarca è annichilito dall’emergere prepotente, e discriminante, del primato della politica e della rivoluzione, dalla fortissima domanda di un nuovo “ufficio della letteratura” (e quindi di un nuovo “ufficio” dell’intellettuale), che esplode nella tumultuosa esperienza giacobina. (…) Dante poeta di una poesia forte, virile, profetica, politica, civile. Dante poeta esule, mai incline al compromesso: come tanti esponenti dell’avventura risorgimentale. L’efficacia di questa interpretazione dantesca è subito formidabile, perché si proietta subito sul presente, connotandone le drammatiche vicende, disponibile a un immediato riuso e consumo attualizzanti, in chiave tutta ideologica».
La costruzione dell’identità italiana è stata soprattutto figlia di una creazione di un’estetica politica? Sembra proprio di sì. È difficile controbattere alla tesi di Alberto Mario Banti quando in “Sublime madre patria” racconta come sono andate le cose tra il Settecento e l’Ottocento mentre si costituiva l’idea di nazione e si combattevano le guerre di indipendenza: «Il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica». Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi ma soprattutto Dante è stata la stella maggiore di questa costellazione. Una tesi che Quondam non solo riprende ma radicalizza quando afferma che il vero romanzo storico dell’Ottocento italiano è la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. La trama è sempre la stessa: «La Storia della letteratura italiana è il romanzo della nascita di un nuovo soggetto e del suo eroico riscatto progressivo: dalla perduta libertà (e virtù e onore) alla libertà (e virtù e onore) riconquistata, attraversando ogni tipo di umiliazione e sofferenza».
Un “romanzo” che però ha avuto un’influenza tale da aver messo di fatto in discussione l’autonomia della letteratura e dell’arte dalla politica in questa nostra discussione sull’identità italiana; ma su questo ci sono intere biblioteche di dibattito. Dante è stato modellizzato secondo questo schema. La sua “serva Italia, di dolore ostello” è diventato il prototipo per un canone di retorica patria di vittimismo e riscatto; la sua fama il mezzo con il quale poter trasformare le sue opere, soprattutto ovviamente la Divina Commedia in una sorta di I-Ching dal quale poter captare qualche citazione compresse a forme meno che proverbiali ad uso e consumo di una qualsivoglia causa. Dante può essere il baluardo contro l’Europa affamatrice della Merkel nella visione recente di un Diego Fusaro, perché nell’undicesimo dell’inferno scrive che «l’usura offende la divina bontade». Salvini lo usa per tacitare gli avversari, con la citazione «Un bel tacer non fu mai scritto». Matteo Renzi nel 2015 conclude il discorso per la fine del semestre italiano in Europa con «Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
L’abbiamo visto con il Dante neonazionalista. “Attualizzare” Dante produce effetti trash quando non intellettualmente disastrosi: Marco Grimaldi in “Dante, nostro contemporaneo” ne ha elencati diversi anche per rispondere alle fantasie interpretative che ogni tanto spuntano. Occorre tutelare Dante dai suoi lettori più furfanteschi, e certo quelli neonazionalisti sono in questo novero, e qui spesso non serve altro che Dante stesso; è chiaro come la struttura della sua opera sia essa stessa un avamposto contro le semplificazioni, le riduzioni, ogni forma di lettura univoca, o strumentale. Ma soprattutto si può riconoscere come la letteratura oggi – con una comunità accademica internazionale – è comunque meno facilmente strumentalizzabile. Oggi Dante è dappertutto – persino cardine di alcune tradizioni letterarie nazionali diverse da quella italiana (cosa sarebbe l’Irlanda senza Joyce o Beckett? Cosa sarebbero Joyce o Beckett senza Dante?) – ma non è tutto. Fare di Dante un reazionario, e quindi un tradizionalista, e quindi un neonazionalista, è un’operazione demenziale oltre che scorretta.
Per ritornare per esempio a Dante ci si potrebbe impegnare di più invece a esplorare le ricezioni in contesti che non prestano il fianco a questo genere di strumentalizzazioni. Non solo nell’ambito letterario, alto e basso, che vanno dall’“Inferno” di Dan Brown all’“Età del ferro” di J. M. Coetzee: ma in quelli del cinema, della cultura pop, delle arti. Una buona guida può essere “Metamorphosing Dante: Appropriations, Manipulations, and Rewrit-ings in the Twentieth and Twenty-First Centuries”, a cura di Manuele Gragnolati, Fabio Camilletti, Fabian Lampart, in cui davvero sembra che la storia della letteratura e dell’arte del Novecento e oltre, moderno e postmoderno, quasi vada a sovrapporsi con l’eredità dantesca: da Virginia Woolf a Thomas Mann, dalla beat generation a Carlo Emilio Gadda, da André Gide a Derek Jarman.
Ma si può innamorarsi di Dante anche seguendo questa fantastica diaspora di Dante, che non è avvenuta solo nel canone occidentale. In molti hanno mostrato, o hanno rivendicato, l’innegabile influenza plurisecolare che Dante ha avuto su artisti africani e asiatici e afroamericani, vedi Dennis Looney (“Freedom readers, “The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy”) o Jason Allen-Paisant (“Dante’s Postcolonial Lives: The Commedia in Modern and Contemporary Writing from African and the African Diaspora”) tanto che è la stessa «associazione tra la rappresentazione simbolica della Firenze del XIV secolo e la condizione postcoloniale e post-schiavistica a essere frequente nella ricezione della Commedia», scrivono Simone Brioni e Lorenzo Mari in “Postcolonial Dante: Reading the Commedia in Mogadishu”. Questo non vuol dire, attenzione, farne un’icona in senso opposto. L’opera di Dante- come accade per la letteratura – può essere il palinsesto per andare oltre le storie identitarie e le retoriche nazionaliste, proprio per la capacità che abbiamo di pensare la scrittura letteraria come il precipitato di storie culturali differenti. Così l’uso politico di Dante diventa sensato quanto più andiamo a fondo nel riconoscerne il valore e il senso letterario e linguistico.

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Il cenno fatale di monna Bice

Beatrice e l’amore con Dante Alighieri: il primo incontro da bambini e la folgorazione all’età di 18 anni quando entrambi erano già sposati per effetto di nozze combinate La morte prematura di lei e la definitiva ispirazione del poeta

Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera”, 29 agosto 2018

Non c’è da augurare a nessuna giovane donna di diventare musa di un grande poeta, perché la fama eterna consegnata alle rime troppo spesso ha i suoi risvolti di autentica iella: la tanto gentile e onesta Beatrice morì poco più che ventenne; la nobildonna francese Laura de Noves, che fu il tormento di Petrarca, non arrivò ai quaranta; la povera figlia del cocchiere, Teresa Fattorini, diventata Silvia nella famosa canzone leopardiana, fu vittima della tisi a soli 21 anni…
Qualcuno ha pensato che si trattasse del frutto di una fantasia fin troppo poetica. Invece una vita, pur breve, Beatrice Portinari l’ha vissuta davvero. Chi era? Nel suo romanzo giovanile, la Vita nuova, Dante Alighieri ne indica (occultamente) l’anno di nascita, 1266: il primo folgorante incontro tra i due avviene quando lei ha otto anni e quattro mesi e Dante, nato tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265, ne compie nove. Siamo dunque nella primavera del 1274, mentre il secondo incontro avverrà allo scoccare dei diciott’anni: è di fronte al saluto e alla conseguente visione estatica che Dante cade nel deliquio e forse nello stato convulsivo tipico di un epilettico prima di addormentarsi e avere la premonizione, in sogno, della dipartita dell’amata.
Con un contorto giro mentale, fatto di complicate combinazioni numeriche centrate sul 9 e di allusioni allegorico-spirituali, il poeta specifica la data e quasi l’ora esatta della morte: un’ora dopo il tramonto dell’8 giugno 1290. Fu un evento di certo doloroso per Dante, il quale lo enfatizzò al punto da scrivere che quella morte precipitò nel lutto l’intera città di Firenze. Fatto sta che Beatrice defunta diventerà, per il poeta, l’ombelico del mondo (non solo poetico) e soprattutto dell’altro mondo.
La testimonianza più attendibile su «monna Bice» si deve a Giovanni Boccaccio, che la definisce «figliola di un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze» e «moglie d’un cavaliere de’ Bardi, chiamato messer Simone». La conferma di tali informazioni è arrivata dal ritrovamento del testamento di Folco, datato 15 gennaio 1288, dove si assegnavano 50 fiorini alla figlia Bice, sposata, appunto, con messer Simone dei Bardi.
Famiglia di ragguardevole sostanza, proveniente dalla Romagna e dedita al commercio e alla finanza, i Portinari risiedevano nello stesso sestiere degli Alighieri ed erano, come loro, politicamente affiliati ai Cerchi, futuri Neri. Alla generosità di Folco, morto il 31 dicembre 1289, fa riferimento Dante nella Vita nuova, alludendo al suo impegno nella fondazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, la maggiore istituzione assistenziale fiorentina. Nello stesso libro, il fratello di Beatrice, Manetto, viene definito il secondo tra i suoi amici dopo Guido (Cavalcanti).
Al pari della futura Laura petrarchesca (maritata con un marchese), anche Beatrice era dunque sposata, così come Dante: ma il legame matrimoniale non impediva all’uno di amare l’altra e di essere (probabilmente) ricambiato. Condizione opposta rispetto a quella sofferta dai poveri Paolo e Francesca, gli adulteri che lo stesso Dante condanna all’Inferno tra i lussuriosi.
Ed era sposata bene, Beatrice: perché i Bardi erano una famiglia ben più illustre dei Portinari (e ovviamente degli Alighieri), essendo titolari di una delle maggiori compagnie bancarie del tempo (commissionarono a Giotto gli affreschi della cappella di famiglia in Santa Croce).
«Insomma — scrive Marco Santagata nella sua biografia dantesca — sposando il cavaliere Simone dei Bardi, Beatrice è entrata a far parte della più aristocratica élite di Firenze».
Ben altro prestigio rispetto al mediocre casato degli Alighieri che negli anni avrebbe espresso un solo priore (lo stesso Dante nel 1300), mentre Simone ricopriva alte cariche pubbliche ed era capitano del popolo a Prato già nell’anno in cui Beatrice morì forse per parto (il primo).
Neppure al poeta, per la verità, mancò l’occasione di accasarsi adeguatamente: era ancora bambino, Dante, quando la famiglia cominciò a cercargli un buon partito. E lo trovò ben presto nella ragazzina Gemma, coetanea di Dante, della potente famiglia dei Donati: un altro matrimonio combinato per ragioni politiche ed economiche sin dal 9 febbraio 1277, data in cui davanti al notaio si fissa l’ammontare della dote della promessa sposa, allora dodicenne come il futuro marito.
Un matrimonio felice? Boccaccio lo esclude: secondo lui, gli Alighieri avevano convinto il rampollo a sposarsi per consolarsi della morte di Beatrice. Ma è falso, visto che le nozze si celebrarono molto prima, tra il 1283 e il 1285. E fecero comunque un grande sbaglio, aggiunge quella malalingua di ser Giovanni. I contrasti tra i coniugi certo non mancarono, ed è vero che dopo l’esilio i due non si sarebbero più incontrati.
Del resto, il Divin Poeta era già divino e aveva in testa soltanto la «donna graziosa» che lo avrebbe guidato nelle sfere celesti.

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Un Dante per amico

Filippo La Porta, Un Dante per amico, “La Repubblica”, 1 aprile 2018

Cos’ha da dire la Commedia ai ragazzi di oggi? Un critico ne ha fatto un testo di etica. E il trucco, a scuola, funziona

Come parlare oggi di Dante a scuola? Una figura monumentale, distante da noi, con le sue certezze metafisiche, la sua fede granitica di uomo del Medioevo, la sua visione di un universo stabile: possiamo dialogare con lui senza “attualizzarlo”, senza cioè appiattirlo riduttivamente sull’orizzonte del presente?

Fortunatamente Dante-personaggio nella Divina commedia inciampa continuamente, scivola, sviene, incespica. In questo ci somiglia, così come nel suo petulante interrogare il paziente Virgilio su ogni cavillo. Ma è soprattutto il Dante “etico” quello capace di illuminare la nostra esperienza di abitatori del Terzo millennio, smarriti e “senza fe’”, proprio perché risale alla radice dell’idea del bene e del male. Ho provato a rileggere la Commedia alla luce di una folgorante citazione di Simone Weil: “È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”. E per dare realtà al prossimo bisogna desiderare che esista. Dunque l’etica fa esistere il mondo (nella sua inesauribile varietà e bellezza), mentre è Lucifero che non vuole che esista nessuno all’infuori di lui. In Pasolini e in Elsa Morante mi colpiva l’abitudine di dire non tanto “azione buona” o “azione cattiva” quanto “azione reale” e “azione irreale”.

Provo a tradurre. Non si deve essere prepotenti, ipocriti, ingannevoli, disonesti, etc. non perché si disobbedisce a un precetto ma perché in questo modo si finisce nella irrealtà, in un mondo desertificato, mentre empatia, sincerità, rispetto verso gli altri, etc. ci mettono nel cuore della realtà, che è soprattutto relazione. Se applicate questo schema alla Commedia troverete conferme sorprendenti. I sette peccati capitali tolgono tutti realtà all’altro e lo sostituiscono con una costruzione fantasmatica.

Nei tanti incontri che ho a scuola vedo che i ragazzi si appassionano a questa possibilità di fondare la morale in modo non moralistico, non sul senso del dovere ma sul riconoscimento della realtà, nella sua interezza. Le domande più ricorrenti sono infatti: “Ci spieghi meglio, nella vita quotidiana, la sostituzione di bene e male con i concetti di realtà e irrealtà?”, o “Com’è possibile che proprio la ipertrofia dell’immaginazione generi il male?”. Una volta ho risposto con l’esempio dei ragazzini che uccisero i genitori poiché immaginavano un mondo senza genitori e divieti, dunque un mondo del tutto irreale. L’immaginazione è come il colesterolo: c’è quella buona, che intensifica il sentimento della realtà, e quella cattiva che invece lo dissolve nella nebbia delle fantasticherie (l’avaro si illude di poter possedere qualcosa, il superbo si ritiene superiore agli altri, l’invidioso immagina le vite degli altri come perfettamente realizza te…). In particolare c’è una scena che cattura l’attenzione degli studenti, quando Dante e Beatrice penetrano nella luna così come “acqua recepe raggio di luce permanendo unita” (un raggio di luce entra nell’acqua senza scompaginarne l’unità). Dare realtà all’altro è riuscire a interagire con lui ma senza violare la sua integrità, il suo ritmo personale e unico. Una suggestione rivolta specialmente agli educatori. Ma la scena forse più sconvolgente per gli studenti è quando Dante nel purgatorio davanti agli invidiosi — una folla di poveri ciechi — decide di abbassare lo sguardo perché loro non vedono lui, e se lui li vede li “oltraggia”. Dare realtà può anche significare abbassare lo sguardo: l’etica è ristabilire una simmetria. I classici sono imprescindibili, però bisogna farli parlare. Un compito riservato a noi mediatori culturali, non molto distante dall’impegno di Dante a dare voce ai morti, alle anime che incontra nel suo viaggio temerari.

Nato a Roma nel 1952, è saggista, giornalista  e critico letterario italiano.  Nel 2007 ha pubblicato per Bompiani un Dizionario della critica militante. Il suo ultimo libro è Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il nuovo millennio (Bompiani, 2018)

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Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino

 inferno_Mad_menDante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano … E del Paradiso
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività

Elisa Manacorda, “La Repubblica”, 29 agosto 2017

QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”…) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo. È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann – analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) – l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma. «È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite. «Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo – continua l’analista – ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo – meglio, sferico – il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.

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