Galeotto fu il libro…

Galehaut, Lancelot and Guinevere, First Kiss Manuscript illustration, c. 1400. Bibliotheque Nationale, Paris

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse
Dante, Inferno, V canto, vv.127-128

 Anonimo del XII secolo, Il bacio di Ginevra a Lancillotto

“Dama!” così dice Galeotto “… abbiate mercé di lui: ché più v’ama che se medesimo…”.
“Io n’avrò, ” dice ella “tal mercé come voi vorrete: perché voi avete fatto quanto io vi richiesi. Ben debbo dunque fare quanto vorrete voi; ma egli non mi prega di nulla”.
“Dama!” fa Galeotto “certo! ché egli non ne ha punto di potere: ché niuno può altri amare, senz’aver tema. Ma io ve ne prego per lui. Se non ve ne potessi aiutar io, sì vi dovreste adoperar da voi: ché più ricco tesoro non potreste voi conquistare”.
“Certo, ” fa ella “lo so bene, ed io ne farò ciò che voi me ne domanderete”.
“Dama!” fa Galeotto “gran mercé! E io vi prego che voi gli concediate il vostro amore, e che lo prendiate a vostro cavaliere per sempre, e diveniate la sua leal dama per tutto il tempo della vostra vita. E così l’avrete fatto più ricco che se gli aveste donato tutto il mondo”.
“Così, ” fa ella “io consento: ch’egli sia tutto mio, ed io tutta sua, e che per voi siano ammendati i torti e le violazioni dei patti”.
“Dama!” fa Galeotto “gran mercé! Ma ora ci vuole un primo pegno”.
“Voi non diviserete cosa alcuna, ” fa la regina “ch’io non compia”.
“Dama!” fa Galeotto “gran mercé! Baciatelo dunque innanzi a me, per cominciamento di verace amore”.
“Del baciare non veggo io ora né luogo né tempo. E non temete ch’io così volentieri non ne sia desiosa, quanto egli ne sia; ma quelle dame son là, che si meravigliano molto di che noi abbiam fatto tutto questo tempo, e non potrebb’essere che non lo vedessero. E nonpertanto, s’egli lo vuole, io lo bacerò molto volentieri”.
Ed egli n’è sì lieto e sì sbigottito, che non può rispondere se non soltanto:
“Dama, gran mercé!”.
“Ah, dama, ” fa Galeotto “non dubitate punto del suo volere, che ci è tutto. E sappiate che niuno se ne accorgerà: perché noi ci trarremo in disparte tutti tre insieme, come a prender consiglio”.
“Di che mi farei ora pregare?” fa ella. “Più lo voglio io che voi e lui”.
Allora si traggono in disparte tutti tre insieme e fan sembiante di prender consiglio. E la regina vede che il cavaliere non osa far più. Allora lo prende ella per le guance e sì lo bacia innanzi a Galeotto, assai lungamente, tanto che la dama di Maloalto s’accorse ch’ella lo baciava.

Carlo Mazzantini, Il bacio tra Lancillotto e Ginevra che travolse il regno del nobile Artù, “Corriere della Sera”, 25 luglio 2001

Eccolo, caracollante fra i suoi baroni, dopo aver sconfitto i Sassoni infedeli, uscire da quello stretto varco fra Storia e Mito. Artù di Logres, signore di Camelot, re dei Brettoni. Sta cavalcando con la sua corte verso la città di Carohaise dove lo attende la sua futura sposa, la bellissima Ginevra figlia di Leodagan, re di Carmelide. Nella luce sfolgorante del mattino, avvicinandosi alla città dove si celebrerà il matrimonio, nel suo cuore tornano le conturbanti emozioni suscitate da un primo lontano incontro con la fanciulla che lo aspetta, il ricordo di quelle «spalle dritte e levigate», di quei «fianchi stretti», quei «seni duri come melette e la carne più bianca di neve novella» che lo avevano scosso e ne avevano scatenato le brame. Con la stessa ansietà lo attende Ginevra presa d’amore per quel cavaliere che sembra sommare in sé tutte le virtù guerriere e di cortesia di quel tempo eroico, tanto che nel vederlo apparire sulla porta del salone della reggia, «giuncato di fresche erbe e di fiori», dove lo aspetta tutta la nobiltà di Carmelide, non riuscirà a frenare uno dei suoi slanci di donna, che subito si rivela passionale e impulsiva. Invece di attenderlo regale e composta come si conviene a una dama figlia di re, circondata dalle sue damigelle, si stacca impetuosamente dal resto della corte e, nel silenzio della sala, a braccia tese, gli corre incontro, per stringerlo a sé e baciarlo appassionatamente sulla bocca, davanti a tutti. Con queste premesse, dove alla pari nobiltà di lignaggio e di sentire dei due sposi si fonde in un appassionato reciproco amore, il matrimonio che si celebrerà con gran fasto la settimana seguente, ha tutti gli elementi per trasformarsi in una sorta d’icona da porre in cima a quel mondo come simbolo di una società che sembra reggersi su infrangibili norme di onore e fedeltà, di precisi e inscindibili vincoli di lealtà reciproca, di indissolubili sudditanze e rispetti. E tale sarà per un lungo tempo, una volta condotta la sposa a Camelot, nella grande Brettagna, fra tornei e cacce e corti bandite, prodi imprese condotte dai nobili cavalieri che attorniano la coppia reale, e menestrelli che in lunghe serate invernali cantano melodiosi lai che parlano d’ amore e di eroismi. Un’età che culminerà nella istituzione della Tavola Rotonda, questa compagnia dei più valenti cavalieri del tempo, nessuno preminente sull’altro, ma il più puro e valoroso di essi destinato, dopo terribili prove e imprese, a ritrovare il santo Graal, la coppa in cui Giuseppe d’ Arimatea raccolse il sangue del Salvatore. Ma sotto quelle rutilanti corazze, sotto quei giachi di maglia d’ acciaio che difendono il corpo di quei rudi cavalieri, sotto le pesanti vesti di broccati di quelle splendide e virtuose dame, sotto quei giuramenti fatti al cospetto delle più venerate reliquie dei Santi, in questo consorzio retto dai dettami della fede cristiana, tutto proiettato verso la difesa di essa, dei deboli, le donne, gli oppressi, scorre il torbido, dolcissimo, infuocato miele della passione amorosa, del desiderio carnale, quel flusso terrigno e vitale, di cui quello slancio di Ginevra all’arrivo di Artù è stato un inquietante baleno, che porta alla trasgressione e alla fine scatenerà passioni, odi e vendette.

L’arrivo fatale di Lancillotto non è accompagnato da alcun segno premonitore. Condotto dalla dama del Lago, che è stata sua nutrice, e che egli crede essere sua madre, il giovane si presenta come un tenero «donzello» biancovestito dall’aspetto timido e riservato che viene a chiedere di essere cinto della spada e degli speroni di cavaliere da Artù. Nessuno sa da dove venga, chi sia, qual è il suo nome. Che anch’egli, essendone ignaro, non potrà rivelare ad alcuno. Neppure alla regina che, colpita dalla avvenenza virginale di quel giovane inginocchiato ai suoi piedi, lo aiuta ad alzarsi porgendogli la mano. Ecco, quella mano, quella mano nuda di donna che appena sfiora la sua è il tocco tramite il quale il contagio della maladie d’amour invade e s’impossessa di Lancillotto. Il bel donzello ne è travolto fin dal primo momento. Ginevra è nella pienezza della sua beltà. Quelle tornite trecce bionde, quella pura fronte altera, gli occhi di smeraldo, quell’incarnato d’alabastro, il portamento regale e pur così cortese, turbinano davanti agli occhi di Lancillotto. Il giovane valletto non ha mai visto nulla di più leggiadro, regale, femminile, desiderabile. Ne è abbagliato: non riesce a rispondere alle domande della regina tanto è turbato, balbetta, distoglie lo sguardo dalla vista di lei, ve lo riconduce come spinto da una forza irresistibile. Mai come in questo momento capisce la verità che sta nei lai che, accompagnandosi sulla viella, i trovieri cantano: «Ahimè! Il mal d’amore mi ferisce!»… Subito lì quel giorno stesso, pur così giovane e benché non abbia ancora compiuto l’ intero rito dell’ investitura, anteponendosi ai grandi cavalieri, reduci da mille imprese, che attorniano il re, chiede di farsi campione della nobile dama di Nohant che è venuta a chiedere aiuto ad Artù contro il re del Northumberland che ha invaso i suoi possessi. Vestito di armi bianche scende in campo e, dopo un sanguinoso duello, offrirà con quella vittoria il primo ideale dono d’ amore alla «sua» signora. La corte con cui Lancillotto avvolge Ginevra fino alla sua conquista non è fatta di canzoni d’ amore, di dolci parole, di sospiri, giuramenti, cortesie, ma nel più puro spirito della dura cavalleria della Tavola Rotonda. Sanguinosi tornei, sfide mortali, ordalie, conquiste di castelli colpiti da sortilegi e maledizioni, imprese rischiose, la notizia delle quali, da presso e da lontano, giunge alla corte di Artù e quindi alle orecchie della regina e poco per volta, senza ch’ella se ne avveda, la conquistano, si insinuano come, ancora indecifrati, messaggi d’ amore nel suo cuore. Un crescendo di imprese e di avventure che a cerchi concentrici allargano la fama di quel misterioso cavaliere, di cui ancora non si conosce il nome né il lignaggio, e fanno di quel tenero donzello biancovestito di quel primo incontro, il più nobile e prode cavaliere del tempo, invitto e puri, «il fiore della cavalleria». Prode e rude nell’uso delle armi, ma candido timidissimo amante. Il suo amore, che rimane segreto nel suo oggetto, pur proclamato con tanto fragor d’armi, è restato nelle sue manifestazioni diretto quello di quel primo momento. Lancillotto è ancora il donzello sognatore, che vive fantasticando la sua donna, cade in improvvise rêverie, rischia di affogare rivestito dell’armatura perché, rapito dalla fantasticheria, non si avvede che la sua cavalcatura è entrata in fiume, resta trasognato ad ammirare la figura della sua amata affacciata alla lontana finestra di un castello e conserverà e coprirà di baci una ciocca di capelli di Ginevra trovati per caso impigliati in un pettine. Così candido e inesperto nella tenzone d’amore giunge al giorno in cui, nel torneo di Galore, nel quale si giocano le sorti del regno, insidiato dalla temibile armata di Galeotto, tutto vestito di armi nere, circondato da un’ aura di mistero, apparirà alla presenza del re e della regina, sul campo di battaglia, a infrangere scudi, spezzare lance, squarciare corazze e giachi d’ acciaio, e volgere le sorti a favore di Artù. Catturata da tanta prodezza, Ginevra vuole conoscere quel cavaliere la cui fama ha già riempito le corti della cristianità. È il giorno fatale. Accompagnato da Galeotto che, conquistato dalla sua valentia, da nemico del re si è trasformato in vassallo, Lancillotto incontra Ginevra nel prato degli Arboscelli. È il momento tanto atteso: trepidanti i due amanti alla fine si riconoscono, ricordano quel primo fugace incontro, il tocco di quella mano, e dopo brevi schermaglie, si scambiano parole d’amore e di dedizione reciproca. «Mi amate dunque tanto?» «Signora, non amo me stesso né altri quanto amo voi». Ma perché quell’incontro abbia il suo naturale suggello sarà necessario l’ intervento mediatore di Galeotto che conosce la timidezza dell’ amico. È lui che suggerisce alla regina di prendere l’ iniziativa. E allora Ginevra, trasportata da uno dei suoi irrefrenabili slanci, prende fra le mani il volto, che trascolora, del giovane cavaliere, e lo bacia sulla bocca appassionatamente. Quel bacio diventerà il punto di riferimento di tutta la poesia cortese, con cui menestrelli e trovatori allieteranno corti e castelli, e dal quale, per secoli, poeti trarranno ispirazione per i loro poemi. Fin quando sul desolato paesaggio della Mancia apparirà, seguita dal suo goffo scudiero, l’ ombra allampanata del Cavaliere dalla Triste figura.

Per lungo tempo quel bacio sarà il solo dono che Ginevra concede a Lancillotto, combattuta fra la fedeltà ad Artù e la passione che monta in lei e alla fine la travolge quando, dopo un’ultima impresa del cavaliere, lo invita nel suo alloggio per «curarlo delle sue ferite» e si concederà a lui, in una notte d’amore in cui alla fine dopo tanto fantasticare e sognare, Lancillotto «fece ciò di cui aveva piacere ed ebbe tutte le gioie che può avere un amante». È l’inizio di una stagione di incontri segreti, di notti trascorse l’uno nelle braccia dell’altra, di baci e di amplessi, travolti ambedue dallo stesso ardore. Ma il «mal d’ amore» non sopporta limiti, prudenze, segretezze: esso si fa così impetuoso, da dimenticare ogni riserbo e condursi follemente tanto da rivelarsi agli occhi di tutti: gli sguardi carichi di desiderio, i toccamenti furtivi, lo scolorarsi dei volti diventano l’ argomento di bisbigli e pettegolezzi di tutta la corte, tanto che un giorno Artù stesso se ne avvedrà e ordinerà che gliene sia svelata la ragione. I due amanti spiati, insidiati vengono sorpresi in un momento di intimità. Lancillotto si difenderà con le armi, ma la regina lo costringe a fuggire, sapendo di avere ormai solo in lui chi potrà salvarla. «Piangente, vestita di seta rossa, e sì bella e avvenente», Ginevra è condotta al rogo cui è stata condannata per fellonia e disonore del suo signore, dalla corte dei baroni di Artù, cui il re pur «sentendosi svenire» dà il suo beneplacito. Ma ecco Lancillotto seguito da uno stuolo di cavalieri, gettarsi come una fiera sui suoi stessi compagni della Tavola Rotonda facendone strage. Liberata Ginevra, i due amanti fuggono braccati e, preso il mare, si rifugiano nei dominii di Lancillotto nella piccola Brettagna. Alla testa di un esercito Artù passa il mare e assedia gli adulteri nella loro roccaforte. Ormai la ruota inesorabile della tragedia si è messa in moto. Quell’amore cortese cantato da trovatori e giullari, trasformatosi in passione senza freni ha travolto tutto l’ordine esistente: ha spazzato via le regole dell’onore e della lealtà, infranto i legami di sudditanza e di rispetto che tenevano saldo quel mondo, e non ci sarà più scampo per nessuno. Guerre, inganni, fellonie si susseguono a devastare la piccola e la grande Brettagna. Nella battaglia conclusiva a Salisbury, in un groviglio di corpi e di cavalli uccisi, cadono tutti i cavalieri che hanno popolato di gesta quel tempo eroico «Ah quante dame persero i loro baroni quel giorno, la polvere saliva fino al cielo che ne era oscurato». Ginevra, che su intercessione di Roma, è stata restituita al re, si ritira in un convento. Lo stesso farà più tardi, relegandosi in un eremo, Lancillotto. Da prode cavaliere, Artù muore delle sue ferite e, nonostante l’onta patita, darà un estremo riconoscimento al valore di Lancillotto indicandolo come il solo che avrebbe potuto ereditare Escalibur, la sua fedele spada. L’omaggio all’amore, che pur ha scatenato tante sventure, verrà proprio da Lancillotto che prima di chiudere gli occhi, chiederà di essere sepolto accanto a Galeotto, il fedele amico, che, intercedendo per quel primo bacio, ha permesso ai trovieri del tempo a venire di cantare quell’amore fatale.

I PROTAGONISTI
Un sovrano mitico celebrato da antiche cronache, poemi e romanzi Re Artù è un eroe semileggendario che animò la vittoriosa resistenza dei Celti della Cornovaglia contro la conquista anglosassone alla fine del V secolo e all’inizio del VI secolo. Questa mitica figura ha ispirato un insieme di poemi in ottonari e di romanzi in prosa. La prima fonte britannica che parla di Artù è un accenno del Gododin, testo del VI secolo dove appare come capo guerriero. Più tardi gli Annales de Cambrie del X secolo menzionano la vittoria di Artù a Mont-Badon del 516 e la battaglia di Cadmalann in cui Artù e Mordred si uccisero a vicenda (537). La materia assume poi tratti epici nell’Historia Brittonum, (cronaca in latino di Nennius X secolo). Da tali testi, oltre che dal Romanzo di Bruto dell’ XI secolo di Robert Wace sul nipote di Enea, mitico avo dei Bretoni, il vescovo Goffredo di Monmouth trasse l’Historia dei Re di Britannia (1135): l’ opera mischia storia e tradizioni, celtiche e cristiane, con l’ intento di dotare i britanni di un eroe nazionale pari a Carlo Magno. Nell’Historia troviamo Merlino, Vortigern, Uther Pendragon, Ginevra, ma nessun accenno a Perceval, Lancillotto o al Graal, che entra nella saga solo nell’ incompiuto poema di Chrétien de Troyes Perceval (1190) e nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach. In precedenza, gli eroi arturiani erano comparsi nei Lais di Marie de France (1167), poemetti amorosi e fantastici, e nei due Tristano di Béroul e di Thomas (1165- 70). Nei poemi di Chrétien, di Wolfram e di altri contemporanei il calice è un vaso sacro dotato di mistici poteri. Solo nel poema di Robert de Boron Le Roman de l’ Estoire du Graal (1202) compare il Calice del sangue di Cristo custodito da Giuseppe. A Boron seguì la monumentale «summa» arturiana (Lancelot, La cerca del Graal, Morte di Artù) opera di più autori che, dalla metà del ‘ 200, ispirò poeti, musicisti, cineasti: dall’anonimo Sir Gawain e il cavaliere verde del 1360 alla Morte di Artù di sir Thomas Malory del 1485 fino alle opere di Wagner Lohengrin (1848), Tristano e Isotta (1865), Parsifal (1882).

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