Canto I

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Dolce color d’oriental zaffiro…

Nel Purgatorio la metamorfosi è purificazione e rinascita: questo è il regno in cui «l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno» (Purg. I, 5-6). Qui, grazie al volo mosso dalle «ali del disio», si compie il processo di liberazione e di innalzamento dell’anima umana verso il cielo: vi si svolge il momento cruciale della metamorfosi che porta i «vermi» umani a divenire «l’angelica farfalla»: «O superbi cristian, miseri lassi, / che, de la vista de la mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi, // non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi?» (Purg. X, 121-126).
E i temi della purificazione, della rinascita, e dell’innalzamento sono annunciati già nel proemio alla seconda cantica. Ma dopo il proemio la narrazione si apre subito con una sensazione visiva, quella del cielo azzurro, limpido e altissimo, in contrasto con l’oscurità e il senso di oppressione del sotterraneo mondo infernale: «Dolce color d’orïental zaffiro, / che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro, // a li occhi miei ricominciò diletto, / tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e il petto» (Purg. I 13-18). Al di là dell’incanto pittorico, l’emblema dello zaffiro posto in apertura della cantica purgatoriale deve anche essere collegato ai valori simbolici e alle virtù che i lapidari medievali assegnavano a questa pietra.[Cfr. E. Raimondi, Rito e storia nel I canto del «Purgatorio», in Id., Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino, Aragno, 2008, pp. 98-132, a pp. 104-105.] E, come si legge nel Lapidario di Marbodo di Rennes, fra le varie proprietà lo zaffiro ha quelle di liberare i prigionieri dal carcere, aprire le porte serrate e sciogliere le catene, placare la divinità e renderla sensibile alle preghiere, purificare gli occhi da ogni sporcizia. E inoltre simboleggia l’altezza della speranza celeste e coloro che, posti ancora in terra, tendono al cielo.[Cfr. Marbodo di Rennes, Lapidari, a cura di B. Basile, Roma, Carocci, 2006, p. 47: «e questa gemma – si dice – sottrae i prigionieri dal carcere, / apre le porte e scioglie le catene, / placa la divinità e la rende sensibile alle preci». E inoltre, p. 127: «Lo zaffiro ha il colore del cielo. È il simbolo di coloro che posti ancora in terra tendono al cielo».] Sono tutti valori che rendono tale emblema adatto a offrire la prima sensazione del nuovo regno, dove attraverso la preghiera e la penitenza le anime si liberano da ogni residuo della prigionia terrena nel peccato e, pur sottoposti alle pene purgatorie, già pregustano, con la speranza, la dolcezza della beatitudine celeste. Anche per questo il suo colore appare «dolce» alla vista.

Giuseppe LeddaDante e le metamorfosi della visione, in griseldaonline.it

Libertà va cercando…

Franz Liszt, «Dante», Purgatorio, 1855 – 1856

P. Cataldi, Note al canto I del Purgatorio, in Antologia della Divina Commedia, a cura di P. Cataldi e R. Luperini, Le Monnier, Firenze 1994

“Marco Porcio Catone: estremo difensore delle libertà repubblicane di Roma, si oppose a Cesare e dinanzi alla vittoria di questo, piuttosto che sopravvivere sotto la sua tirannide, preferì uccidersi, in Utica, nel 46 a.C. È qui necessario rispondere a due legittimi dubbi. Primo: come mai un pagano, e per di più un suicida, è non solo salvato ma eletto a custode del Purgatorio? Secondo: come mai un trattamento di così eccezionale favore è riservato proprio a un nemico di Cesare e dell’Impero, attraverso i quali, secondo Dante, la Provvidenza divina ha offerto al mondo la strada della concordia civile?
Per rispondere alla prima domanda si consideri che Catone è presentato in una luce di grande nobiltà e virtù da molti scrittori latini importantissimi per la formazione di Dante (Virgilio, Cicerone, Lucano); che Dante, come altri pensatori del suo tempo, era propenso a riconoscere la possibilità che anche alcuni pagani particolarmente virtuosi potessero essere salvati; infine che il suicidio è in casi eccezionali ammesso dagli stessi teologi cristiani (Agostino, Tommaso), quando «avvenga per suggerimento divino, per mostrare un esempio di forza virtuosa» (Agostino, De civitate Dei, I, 17 e 20). Il gesto di Catone è quindi non solo perdonabile, ma degno di essere esaltato come segno di virtù, di coerenza, di libertà; tale da fare dell’eroe latino una figura esemplare proprio di quelle qualità caratterizzanti il mondo del Purgatorio (e il discorso di Virgilio ai vv. 71-75 sottolineerà questo rapporto).
Resta la seconda questione. Ebbene: il gesto nobilissimo di Catone è in sé moralmente giusto ed esemplare, anche se egli lo ha compiuto per disprezzo di quel potere politico da cui doveva nascere l’Impero; è come se Catone abbia obbedito direttamente a una legge superiore di libertà, ignorando la sua complessa e necessaria incarnazione storica (che a quella legge sembrava contrastare). E d’altra parte l’Impero è in qualche modo un rimedio provvidenziale alla depravazione mondana: Catone, semplicemente, è estraneo a tale depravazione.
Quanto alla raffigurazione che del romano offre Dante, si consideri che in essa culmina la descrizione del paesaggio dell’inizio del canto; e che la figura nobile e virtuosa di Catone è in stretto rapporto con il significato allegorico (e con la intensa rappresentazione lirica) del cielo stellato (cfr. vv. 37-39). L’apparizione della figura solenne è sottolineata dalla scelta del lessico (veglio, solo, degno ecc.) e delle immagini (cfr. vv. 32 sg). Catone è rappresentato come un patriarca o come un profeta. A questo proposito, ai vv. 34-36, […] si noti, sul piano stilistico, la solennità impressa alla descrizione dall’anastrofe Lunga la barba di pel bianco mista // portava. […] [E più avanti], ai vv. 46-48, Catone rivolge a Dante e Virgilio quattro brusche domande […] con le quali il silenzio raccolto e riposante del paesaggio aurorale è perentoriamente rotto: la figura di Catone acquista, grazie al tono severo delle apostrofi* una ancora maggiore fierezza morale.
[Ma sono soprattutto le parole di Virgilio] ai vv. 70-72 che, illuminando contemporaneamente la figura di Dante e quella di Catone, consentono di cogliere il significato ultimo della presenza di Catone in questo canto. […]
La libertà che Dante cerca, sia chiaro, è la libertà «dal vizio e dal peccato » (Buti), e cioè la libertà morale intesa come fondamento della persona umana pienamente compiuta, base di ogni altra libertà, compresa quella politica. Qui infatti questa parola libertà, senza specificazioni, si allarga a comprendere un ideale umano e storico complessivo, che
riguarda ogni aspetto della persona, nella sua dimensione privata e in quella pubblica. L’unico attributo di questa libertà è l’essere cara, nel senso di preziosa (e amata) e, insieme, nel senso di costosa; per entrambe le ragioni, chi la apprezza arriva anche a rifiutare la vita, per lei. E qui è già evidente il riferimento al suicidio di Catone, che si chiarirà esplicitamente nella terzina seguente.
Tra Dante e Catone è instaurato dunque un parallelismo: anche Dante cerca quella libertà per la quale Catone ha dato la vita. Non si tratta qui, come da qualcuno è stato ingiustamente affermato, di un tentativo di lusingare Catone per ottenere il permesso di entrare nel suo regno; le parole di Virgilio riflettono al contrario il profondo movente del viaggio e del poema dantesco; forse in nessun altro luogo della Commedia sono con altrettanta semplicità e intensità affermate le sue intime ragioni. Inoltre questo tema della libertà introduce al carattere peculiare del Purgatorio, che sta appunto nel progressivo conseguimento di essa: processo di liberazione integrale, a rendere possibile l’ascesa alla beatitudine del Paradiso.
A questo proposito diviene più che mai chiara la ragione della presenza di Catone in questo luogo: la sua storia esemplare di adesione al valore della libertà può adeguatamente situarlo sulla soglia del regno in cui alla libertà si anela attraverso la purificazione. E, appunto, libero sarà proclamato Dante da Virgilio sulla vetta del monte (XXVII, 140). […]
Lo stesso distacco di Catone dagli affetti terreni (vv. 88-90), anche da quello profondo che lo legava alla moglie (vv. 85-87), rivela il senso altissimo di quella libertà che egli rappresenta; e contrappone in qualche modo la sua appartenenza alla legge stessa della Grazia al limite della ragione umana quale si mostra nelle parole di Virgilio. […] La donna terrestre (Marzia) non ha più potere; ma quella celeste (Beatrice) è sufficiente a persuaderlo. Catone rifiuta l’argomento umano di Virgilio come lusinga e accoglie quello spirituale che gli compete: la volontà di una beata.”

Catone è personaggio di stampo tragico, eroe securus, invictus, durus, che possiede patientia ed abstinentia. Cfr. Pharsalia, II, v. 372 sgg.:

Ille nec horrificam sancto dimovit ab ore
caesariem duroque admisit gaudia vultu
(ut primum tolli feralia viderat arma,
intonsos rigidam in frontem descendere canos
passus erat maestamque genis increscere barbam:
uni quippe vacat studiis odiisque carenti
humanum lugere genus). Nec foedera prisci
sunt temptata tori: iusto quoque robur amori
restitit. Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, seruare modum finesque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere vitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Lui non si scuote dal santo volto gli ispidi capelli e non lascia trasparire alcun sorriso dal duro volto ( dal momento in cui aveva visto impugnare le funeste armi si era lasciato cadere intonsi i capelli sulla fronte severa e crescere la barba sulle guance in segno di mestizia; lui che era il solo immune da odi e da passioni, si preoccupava di piangere sul genere umano). Questo il carattere, questi i principi immutabili del duro Catone: conservare la misura, non uscire dai limiti, seguire la natura, dedicare la vita alla patria, credere di essere nato non per se stesso, ma per tutta l’umanità.

 

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