Canto VI

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CERBERO: VIRGILIO, Eneide, VI, vv. 417-423

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat, adverso recubantis immanis in antro.
Cui vates correre videns iam colla colubris
melle soporatam et medicatis frugibus offam
obicit; ille fame rapida tria guttura pandens
corripit obiectam atque immania terga resolvit
fusus humi totoque ingens extenditur antro.

L’enorme Cerbero col latrato di tre fauci rintrona
I regni infernali, giacendo immane di fronte in un antro.
La profetessa, vedendo i colli arruffarsi di serpi,
gli getta un’offa saporosa di miele e di farina affatturata.
Quello con fame rabbiosa spalancando le tre gole
La afferra al volo, e rilassa le immani terga
Sdraiato al suolo, ed enorme si estende per l’antro.

ALLUSIVITA’ E OSSESSIVITA’ DELLA PENA

”La pioggia che colpisce le anime golose, oltre a essere costante e uniforme (regola e qualità mai non l’è nova), è eterna, maladetta, fredda e greve. La lunga enumerazione aggettivale, occupando l’intero verso, accentua il realismo della sofferenza, ma nessuno dei quattro aggettivi ha solo funzione mimetico-descrittiva. Tutti hanno connotazioni psicologiche o morali: etterna richiama l’irrevocabilità della sentenza divina, maladetta l’assenza della Grazia e delle sue virtù, fredda il raggelamento spirituale nell’egoismo dei piaceri mondani, greve la materialità del peccato di gola, correlativo al pesante miscuglio di grandine, acqua tinta e neve che si rovescia sui golosi. L’implacabile uniformità della pioggia è solo un fattore della pena: essa è, inoltre, ossessivamente moltiplicata dagli assordanti latrati di Cerbero e dall’irosa violenza con cui il cane infernale graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. Si comprende come Dante possa affermare che nessun’altra pena, benché maggiore, è così spiacente.

L’ANIMALITA’ DEL PECCATO DI GOLA

Non c’è dubbio che il peccato di gola sia per Dante un peccato con caratteri di bestialità, un eccesso di fisicità che allontana l’uomo dalla sua natura spirituale. La condanna dantesca si pone all’interno di quella lunga tradizione che dai mistici medioevali, e dalla loro ascetica e radicale condanna del corpo, risale fino al Vangelo e ai classici. Dante ricorda bene le parole con cui san Paolo respinge i cultori dei piaceri materiali (quorum deus venter est, “il cui dio è il ventre”) e rammenta la condanna di Aristotele e il disprezzo dello storico latino Sallustio verso le nature ventri oboedientia (che obbediscono al ventre). Di qui l’osmosi tra il cane Cerbero e i golosi: anch’essi sono come cani (Urlar li fa la pioggia come cani), abbrutiti, inerti e disumanizzati. Nessuno di loro parla né sembra percepire il passaggio di Dante sopra di sé (altro indice di disprezzo), se si esclude Ciacco, unico a dare segni di umanità.

UN CANTO TEMATICO
L’unica azione narrativamente significativa del canto è il gesto di Virgilio-adiuvante che distoglie con la manciata di terra l’attenzione di Cerbero per consentire a Dante il passaggio. Il VI è quindi un canto quasi privo di azione, il cui rilievo è affidato ai tre temi che ne costituiscono l’ossatura concettuale.

IL TEMA POLITICO
Per bocca di Ciacco, Dante, nel colpire le lotte di fazione tra Bianchi e Neri (origine della rovina di Firenze e della sua rovina personale: l’esilio), smaschera le cause morali che stanno dietro ogni contesa politica: superbia, invidia e avarizia sono le faville tipiche di una società mercantile, individualistica e rissosa, una società del denaro che il conservatore Dante condannerà sempre con veemenza, colpendone soprattutto l’avarizia, la “lupa” inviata nel mondo da Lucifero. Non è senza ragione che il canto, aperto dall’avidità del peccato di gola, si chiuda circolarmente con il richiamo a un’avidità più pericolosa, quella della ricchezza, di cui è simbolo Pluto, guardiano del cerchio degli avari e definito il gran nemico, definizione biblica del diavolo.

UN PERSONAGGIO-FUNZIONE
Proprio perché Ciacco è privo di rilievo storico, diventa facilmente un personaggio-funzione: incarna il cittadino comune, un non grande che giudica i grandi e sfoga il proprio rancore verso i loro vizi e le loro discordie. Ma in questo è anche il portavoce morale del Dante esule; e del Dante esule ha anche l’atteggiamento verso Firenze, di distacco (la città non è mai nominata) e al tempo stesso di nostalgia (seco mi tenne in la vita serena), di desiderio e insieme di inappartenenza.

Il TEMA MORALE
Attraverso l’evocazione-pretesto di cinque grandi fiorentini del passato, che Ciacco dice essere tra l ’anime più nere, Dante ripropone un motivo ricorrente nella Commedia: l’insufficienza delle operazioni virtuose, politiche o d’altra natura, per la salvezza eterna. La dignità umana (soprattutto quella che proviene dalle virtù civili) è per Dante un valore, ma un valore circoscritto all’ambito terreno, al ben far in favore della comunità. È quindi situabile in una prospettiva morale ben distinta da quella ultraterrena che guida il viaggio di Dante nella Commedia e ne condiziona il giudizio: nel paradigma di virtù cristiane che conducono alla salvezza (carità, umiltà…) non c’è posto per l’operare politico.

IL TEMA DOTTRINALE
La dotta discussione sulla resurrezione dei corpi e sulla condizione delle anime dopo il Giudizio universale guida il lettore verso il significato più profondo della Commedia: la scarsa rilevanza della vita terrena rispetto all’unica vera vita, quella eterna, e l’ineluttabilità del giudizio divino ch’in ettemo rimbomba.”

Da La Mente innamorata, a c. di L. Tornotti, Bruno Mondadori

Lo scontro tra Bianchi e Neri

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”Ciacco allude con tono profetico alle sorti dei Bianchi e solo indirettamente a Dante, la cui vicenda personale dell’esilio rientra in quella delle lotte con i Neri. Dopo anni di pesanti contrasti (lunga tencione, v. 64), il 1° maggio del 1300 le due fazioni (riunite attorno alla famiglia dei Cerchi i primi, dei Donati i secondi) vennero al sangue. Nel corso di una zuffa, infatti, alcuni giovani, sostenitori di Corso Donati, tagliarono il naso a Ricoverino de’ Cerchi.

Come la città di Firenze si partì e si sconciò per le dette parti bianca e nera, in G. Villani, Cronaca, ms. Chigiano L.VIII.296: IX, 39 (Biblioteca Vaticana)

Inizialmente i Bianchi, venuti a Firenze dal contado (la parte selvaggia, v. 65), scacceranno i Neri (l’altra, v. 66) e infliggeranno loro dure sanzioni. Ma prima che siano passati tre anni (infra tre soli, v. 68: dall’aprile 1300, data dell’incontro con Ciacco, all’ottobre 1302 sono due anni e mezzo) i Bianchi perderanno (questa caggia, v. 67) e i Neri torneranno al potere (l’altra sormonti, v. 68) grazie all’aiuto del papa Bonifacio VIII, che dapprima si mostrerà indeciso (piaggiav. 69), poi chiamerà Carlo di Valois, fratello del re di Francia, in appoggio ai Neri, favorevoli alla sua politica di estendere il dominio pontificio sulla Toscana. Come prima i Bianchi hanno inflitto ai Neri dure sanzioni, così i Neri si vendicheranno dei Bianchi condannandoli all’esilio. Vittima illustre sarà anche Dante.

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La corruzione di Firenze
La giustizia è ciò che rende possibile la vita sociale ma, afferma Ciacco, nella città pochi sono i giusti e non vengono ascoltati. I vizi che hanno generato la corruzione morale e il disordine politico sono la superbia, che scatena la faziosità dei nobili, smaniosi di dominare; l’invidia, in particolare dei commercianti e dei borghesi che, più potenti finanziariamente, vogliono anche più potere politico; l’avarizia, vale a dire l’avidità di potere e di beni materiali, comune a entrambe le classi sociali. A tutto questo va aggiunto l’atteggiamento ambiguo di Bonifacio VIII. Dunque, il primo e principale nucleo tematico del canto è un’approfondita riflessione politica sulle sorti di Firenze e sulle cause delle sue discordie.”

B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI, Zanichelli 2012

 

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