Lezione sulla nostra eterna Commedia

Alberto Asor Rosa, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Il male e l’amore, la morte e la poesia la conoscenza come salvezza. Ecco che cosa continua a dirci Dante

La Commedia di Dante narra, — e ragionatamente descrive e interpreta: bisogna tener  presente fin dall’inizio questa distinzione — il viaggio che il Poeta compie nei tre regni dell’Oltretomba, l’Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Siccome colpa, condanna e perdizione, pentimento e purgazione, ricompensa e salvazione, rappresentano — non c’è ombra di dubbio — i tre possibili destini umani — ieri, oggi, domani, — il compito che il Poeta ha deciso di assumersi è quello di toccare, esprimere, cantare tutte le possibili — reali, non solo potenziali, potenziali, non solo reali — condizioni riconducibili alla storia eterna dell’uomo. E cioè: Dante parla, com’è ovvio, non potrebbe esser diversamente, di quello che gli era noto, di quello che la sua esperienza personale, vivente, gli aveva consentito di conoscere e sperimentare, ma anche di quello che la sua immensa cultura gli
metteva a disposizione.
Ma nell’essenza racconta, per grandi squarci analogici, anche la nostra storia, la storia presente, quella futura, quella dei nostri figli e nipoti, e dei nostri posteri più lontani, e le logiche che la dominano e continueranno a dominarla. Faccio un esempio, forse meno scontato del solito. L’interrogativo con cui nel suo viaggio ultraterreno Dante si misura riguarda il male: origini, pervasività, perfino fascino insospettabile e potente del male sull’uomo e sulle sue scelte e sui suoi comportamenti. Una risposta la troviamo nel Canto XVI del Purgatorio (attenzione: nel Poema, duecento canti, il XVI del Purgatorio rappresenta quasi il centro esatto: vuol dire che l’argomento che vi viene trattato è considerato da Dante di estrema importanza). Ne è protagonista Marco Lombardo, dignitoso cortigiano del secolo precedente (una generazione, dunque, prima di quella di Dante).
Dante affronta con lui l’argomento cardinale, quello che fonda, come accennavamo, l’impianto stesso della Commedia e spiega in fondo come il mondo è fatto: da dove viene il male? Chi ne è davvero responsabile? Come gli si può far fronte? La risposta di Marco alle domande di Dante è lunga e complessa. Ne riassumo la parte essenziale, a partire da queste sue parole (cito dall’edizione di Giorgio Inglese, Carocci):
«Voi che vivete ogni cagion recate
pur suso al cielo, sì come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto».
(Purg. XVI,vv. 67-72).
E cioè (ammesso che in due parole si possano spiegare alcuni versi danteschi): l’uomo sulla terra è messo continuamente di fronte a scelte fra bene e male e ha in sé, calate in lui dall’alta volontà divina, tutte le potenzialità e gli strumenti necessari per fare una scelta giusta. E quindi: 

«Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ‘l mondo ha fatto reo
e non natura che ‘n voi sia corrotta».
(ivi, vv. 103-105).
Il “libero arbitrio” (così Dante lo definisce qui con una precisione assoluta le cui conseguenze arrivano fino ai giorni nostri) è uno degli attributi umani fondamentali: se l’uomo non ne fa uso, la responsabilità è tutta sua (allora come oggi) e le conseguenze possono essere catastrofiche.
Questo principio — la libertà delle scelte che hanno portato tutti i protagonisti lì nelle diverse scansioni della Commedia — è evidentemente fondativo, ma si muove ancora ai margini, nelle premesse, direi, del “Sistema Commedia”. La domanda, che sviluppa e chiarisce ancor di più il “sistema” è: cos’è che fa di ogni transito nel poema un messaggio destinato a durare nel tempo? La risposta sarebbe in un certo senso semplice: la Poesia; ovvero quella forza di costruzione espressiva e di comunicazione pervasiva, che ha fatto nel corso dei secoli di ogni terzina del Poema un interlocutore per noi non logorabile dal tempo. Il discorso sarebbe sterminato: se ne può soltanto indicare, sommessamente, una delle porte d’ingresso. L’insieme delle difficoltà e il patrimonio pressoché indicibile delle risposte si chiariscono man mano che il Poeta procede nel suo viaggio, e si arricchiscono smisuratamente, nei limiti delle “umane posse”, quando raggiungono il loro culmine, nel Paradiso. Il Paradiso è la cantica della salvazione e dunque della conoscenza: è comprensibile che per Dante i due aspetti siano strettamente intrecciati (sarebbe straordinario riuscire a capire se anche per noi lo siano). Anche lassù, del resto, la conoscenza per l’uomo non è destinata a raggiungere mai l’assolutezza e la completezza che in teoria quella imprevista e imprevedibile continuità ci garantirebbe. Infatti, quando Dante giunge finalmente a contemplare il mistero dei misteri, la Trinità, la conoscenza intesa in senso umano finisce e subentra una visione la cui portata è senza
limiti. Si può in quel momento conoscere il tutto, ma non è possibile raccontarlo con parole umane: 
«Da quinci innanzi (da qui in poi) il mio veder fu maggio  (fu di gran lunga più esteso e profondo) / che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede: / e cede la memoria a tanto oltraggio».
(Par. XXXIII, vv. 55-57).
Ma questa incompletezza, per così dire, pertiene  alla dimensione strettamente umana — “normale”, si potrebbe dire — della conoscenza: in realtà coincide qui con un’assolutezza incondizionata e senza limiti, cioè con quella conoscenza che pertiene all’assoluto, e cioè non ha né limiti né confini. E appunto: quello di cui Dante fonda la sua gigantesca costruzione è l’ipotesi, il messaggio che esista un’idea di conoscenza senza limiti né confini. Ma, al tempo stesso, il Poeta ha (e mette in opera) la consapevolezza delle infinite, estreme possibilità che una posizione trascendentale come questa gli offre e gli impone. Scrive all’inizio del Paradiso, quasi come premessa metodologica e insieme avvertenza ai lettori:
«Trasumanar significar per verba
non si poria: pero l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba».
(Par., I, vv. 70-72).
Ossia (sempre più approssimativamente): “trasumanare”, ossia andare al di là dei confini umani, che sono i nostri, — di tutti noi viventi intendo, di qualsiasi fede e convinzione siamo — non sarebbe possibile spiegarlo, rappresentarlo mediante parole umane: e perciò occorre ricorrere a forme analogiche, espressive. Sono da considerarsi sufficienti per coloro cui la grazia divina e i suoi meriti hanno concesso di “trasumanare”. Così la Poesia, appunto, riaccosta e rende visibile e comprensibile il rapporto, altrimenti incomunicabile,
fra assoluto e vivente. Quello che Dante dunque ci dice con la Commedia, letta da cima a fondo, è che esistono possibilità che stentiamo a capire se ci arrestiamo alle soglie delle cose, dei pensieri, dei desideri e delle nostre personali attese: se seguiamo il Poeta nel suo percorso, da cima a fondo, scopriremo qualcosa che all’inizio non sapevamo neanche di voler cercare.
Facciamo ora un (lungo) passo indietro. Dante giovane inizia come poeta lirico d’amore con la Vita nova, operetta di prosa e poesia. Protagonista ne è Beatrice, gentildonna fiorentina, da lui appassionatamente amata, ma senza superare i confini della più spirituale riservatezza. Ma amata, voglio dire, intensamente e umanamente amata, come un gentiluomo di tarda età comunale poteva amare la sua principessa, la sua “domina”. Ora, è a Beatrice che il Poeta attribuisce nella Commedia il compito di guidarlo, dall’uscita dalla terrestrità fino al Paradiso, aiutandolo a liberarsi sempre di più dalle impurità terrene, per poter accedere all’ultima parte del suo esaltante percorso («puro e disposto a salire a le stelle», Purg. XXXIII, ultimo canto della cantica: appunto). Fino a consegnarlo alla visione dell’assoluto, di cui abbiamo già parlato: quell’entità incommensurabile e in realtà difficilmente definibile, nella quale — proprio per usare le parole usate da questa straordinaria guida — si fondono «luce intellettual piena d’amore, amor di vero ben pien di letizia, letizia che trascende ogni dolzore». (Par. XXX, vv. 40-42).
Ossia: dall’inizio alla fine del suo percorso umano e poetico Dante non dimentica nessuno dei fattori simbolico- umani su cui la sua costruzione, nelle sue differenti acquisizioni, si è edificata. Arriva a contemplare l’Empireo: ma ad accompagnarlo fin lassù, e fargli da maestra e guida, fin dove è “umanamente” possibile, torna la creatura in cui si è incarnato il suo sogno amoroso e poetico giovanile. Nell’inesauribile catena dei processi mentali e poetici danteschi qui si chiude un capitolo della sua storia, e un altro se ne apre.

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