Canto IV

Canto IV: La “magnanimità”

“Gli spiriti magni che popolano il castello […] sono coloro che si rendono degni di grande onore, perché consapevolmente onorano in sé la dignità dell’uomo. L’opposto simmetrico dei pusillanimi […], che abbiamo lasciato nel vestibolo correre dietro a uno straccio di vessillo”. Vittorio Sermonti, Inferno, ed. Scolastiche Bruno Mondadori, 2000

Per le anime del Limbo del primo cerchio infernale non c’è una pena relativa a una colpa, ma la pena comune a tutti i perduti, cioè l’assenza di Dio, che è già totale perdizione. Adeguandosi alle posizioni della teologia cristiana, Dante afferma che nel Limbo ebbero sede i profeti e i patriarchi dell’Antico Testamento fino al momento in cui Cristo, disceso agli Inferi dopo la sua morte terrena, li liberò portandoli con sé in Paradiso; nel Limbo, inoltre, risiedono in eterno i fanciulli morti senza battesimo. Diversamente dai teologi, però, Dante vi colloca anche gli adulti giusti del mondo pagano, che non poterono conoscere Cristo, e grandi personaggi del tempo cristiano appartenenti ad altra fede. Quella di Dante è dunque una scelta originale e coraggiosa, in quanto discordante con la tradizione teologica. Per le loro caratteristiche di dignità e nobiltà, gli spiriti del Limbo dantesco sono identificabili con i “magnanimi” dell’Etica Nicomachea di Aristotele, che rappresentano nel loro insieme il punto più alto della grandezza umana raggiungibile entro i limiti della natura. Essi esercitarono al massimo grado le virtù cardinali e intellettuali, ma furono privi di quelle teologali, assolutamente necessarie all’acquisizione della salvezza (cfr. Purg. VII, 34-36); sono pertanto condannabili solo per la persistenza del peccato originale, che essi non ebbero la possibilità di cancellare attraverso il battesimo. Soggetti alle leggi eterne che regolano l’intero mondo infernale, gli spiriti magni sono dunque irrimediabilmente perduti, ma Dante, riconoscendone le alte qualità morali, concede loro una forma di pena anomala rispetto a quella degli altri peccatori. Essi non sono infatti sottoposti a punizioni corporali (duol sanza martíri, v. 28) e soffrono unicamente per il desiderio di Dio, destinato a restare inappagato in eterno, e hanno come sede “privilegiata” un nobile castello, degno della loro umana grandezza. In questa condanna anomala è racchiuso il giudizio complessivo di Dante sul mondo antico: un mondo che il poeta ammirò profondamente (come dimostra l’esaltazione nell’essere accolto nella schiera dei suoi grandi modelli di poesia, sesto tra cotanto senno, v. 102) e di cui egli si sentì il continuatore, ma che pure egli superò in virtù della fede cristiana che mancò alla civiltà classica (integrata tuttavia da Dante nella visione provvidenziale della storia in quanto preparatoria alle verità superiori della Rivelazione). Circoscritti nei limiti dell’umana ragione, gli antichi intravidero soltanto, senza poterlo raggiungere, un barlume della verità trascendente. Il significato profondo del canto va ricercato proprio in questa loro dolorosa esclusione dalla beatitudine eterna. Alla categoria degli spiriti magni appartiene lo stesso Virgilio in quanto ribellante alla legge di Dio (Inf. I, 126). Col suo evidente turbamento (v. 14), egli incarna il senso di sospensione malinconica del canto e la coscienza della privazione della speranza (vv. 41-42), che costituisce appunto il limite invalicabile toccato da quegli spiriti, che pure nella vita terrena furono uomini sommi.

Divina Commedia, Codex Altonensis, 1350-1410, Toscana, Bibliothek des Gymnasiums Christaneum

ALBERTO ASOR ROSA, La bella gente del limbo, “la Repubblica”, 25 gennaio 2006

Da alcune settimane la stampa c’informa che la Chiesa cattolica sta procedendo all’«eliminazione» del Limbo. Una speciale Commissione, ispirata a quanto pare direttamente da papa Ratzinger, sta studiando il modo di restituire alla misericordia divina le anime di quei bambini che, morti prima del Battesimo, la consuetudine precedente voleva relegati in una zona neutra, né infernale né paradisiaca, – appunto, il Limbo, – in quanto, sebbene esenti da ogni colpa, «non ebber battesmo, / ch’ è porta de la fede che tu credi» (parole di Virgilio a Dante, Inf. IV, vv. 35-36). […]
Limbus
 è parola latina, d’ origine greca, che significa letteralmente «lembo», «orlo»: qualcosa, insomma, che sta ai margini, né dentro né fuori. Un dotto amico, studioso ed ecclesiastico insieme, mi avverte che la presenza di questa nozione nella consuetudine cattolica non ha nulla di dogmatico. Essa pertiene infatti a quella generale risistemazione dell’aldilà, che contraddistingue il Medio Evo dopo l’anno Mille, quando, come è stato spiegato con argomentazioni inconfutabili, nasce il Purgatorio a far da intermediario nell’assoluta divisione manichea fra «sommersi» e «salvati» (Inferno e Paradiso), e con esso, probabilmente, anche il Limbo, «la cui nascita sarà pressappoco contemporanea a quella del Purgatorio, nell’ambito del grande rimaneggiamento geografico dell’ aldilà compiuto nel secolo XII» (J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, 1981, p. 55). Si tratta, come si vede, di classificazioni fondamentalmente simboliche, le quali cercano di mettere ordine nella «sistemazione» delle anime dopo la morte come conseguenza dei loro comportamenti terreni: l’ eterna salvezza, da una parte, l’eterna punizione, dall’altra, e in mezzo uno stadio penitenziale che prolunga il contrimento umano e sfocia anch’esso nell’eterna beatitudine. Già da tempi più antichi erano stati abbozzati anche un Limbus puerorum (i bimbi, appunto, morti prima d’aver ricevuto il battesimo) e un Limbus patrum (i patriarchi dell’Antico Testamento, cui si deve la fondazione della tradizione giudaico-cristiana e che pure, nonostante ciò, essendo venuti prima della rivelazione cristiana, non avevano potuto essere ammessi, alla loro scomparsa, direttamente alla presenza di Dio). Bene. Il ragionamento che voglio proporre fa perno sulla rappresentazione che Dante Alighieri costruisce intorno alla figura-simbolo del Limbo nel Canto IV dell’Inferno. Il presupposto della proposta è che Dante, nella Commedia, pur attenendosi alle fondamentali categorie della ai suoi tempi molto recente tripartizione dell’ aldilà in Inferno, Purgatorio e Paradiso, visualizzandola e concretizzandola, ne presenta una visione molto più ricca e articolata di quella della tradizione e, in generale, la visione più ricca e articolata che dell’aldilà cristiano sia mai stata data. Quel che Dante ci dimostra, con la sua prodigiosa capacità immaginativa, è che il genio poetico, in un caso come questo, precede e sopravanza quello teologico, arrivando a porgli dei problemi a cui il genio teologico di per sé non sarebbe mai arrivato e a cui, di conseguenza, sarebbe tenuto a rispondere. Ma vediamo. Il Limbo dantesco costituisce il primo cerchio dell’Inferno, ma si distingue nettamente da tutti quelli successivi, sia per l’ambientazione proposta sia per il trattamento riservato alle anime. Esso prevede tutte le categorie tradizionali del Limbus. E’ affollatissimo: vi sono infatti «turbe» «ch’erano molte e grandi, / d’ infanti e di femmine e di viri» (Inf. IV, vv. 29-30). Gli «infanti», però, – ossia i bambini morti prima del battesimo, – qui entrano in scena e qui ne escono: evidentemente non hanno struttura tale da diventare personaggi poetici (non, almeno, agli occhi di questo poeta). Grandissimo rilievo hanno invece le «femine» (=donne) e i «viri» (=uomini). I quali sono di due categorie: i patriarchi ebrei e le loro donne (Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, Davide, Giacobbe con Isacco e i suoi dodici figli, Rachele); le personalità pagane o di altre religioni. I primi sono stati sollevati alla beatitudine divina dal Cristo trionfante appena risorto (vv. 55-61). Quando Dante entra nel Limbo, dunque, trova solo i secondi, e già questo basta a far pensare. La stessa guida di Dante, Virgilio, che lo accompagna fin dove gli è possibile, e cioè attraverso l’Inferno e il Purgatorio, fino alle soglie del Paradiso terrestre, prima di lasciarlo a Beatrice, è un’anima del Limbo. Si direbbe dunque che Dante attribuisca un’importanza particolare nel suo sistema a questa eletta congrega, assegnandole un trattamento altamente onorevole rispetto alle loro particolari condizioni storiche («e sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio», vv. 41- 42). Il relativo benessere o, se si vuole, la liberazione dalle pene eterne, nonostante abbiano creduto in altre fedi e non abbiano conosciuto o abbracciato la vera religione, trovano in alcuni di loro un riconoscimento ulteriore quando esse abbiano acquisito in vita una fama alta e onorata: «L’onrata nominanza / che di lor suona sì ne la tua vita, / grazia acquista in ciel che sì li avanza (vv.76-78). Che la fama mondana sia in grado di orientare il giudizio divino, è altra singolarità dantesca che fa pensare. Dante, cioè, elabora qui una specie di teorica degli «spiriti magni» (v. 119), che tali furono, e tali sono riconosciuti, anche da Dio stesso, indipendentemente dalla fede professata, e fa del Limbo il loro «luogo» privilegiato (relegando invece gli infanti al ruolo di comprimari pressoché invisibili). La molteplicità dei casi rappresentati costituisce di per sé un elenco interessantissimo degli «spiriti magni», che Dante vorrebbe, se non «salvati», almeno «non sommersi»: con una ricchezza intellettuale e un’apertura umana, che fanno di Dante il sommo che è. Ognuno di loro costituirebbe un problema da esaminare individualmente, ma, andando per grandi schemi, si potrebbe distinguere fra i personaggi qui presenti quelli vissuti prima dell’ arrivo del Cristo e quelli venuti dopo. Fra i primi metteremo i grandi poeti dell’antichità greca e latina: Omero, Orazio, Virgilio, Ovidio (persino il licenziosissimo Ovidio!), Lucano (quest’ ultimo, veramente, nato e vissuto dopo la venuta del Cristo, ma chiaramente assimilato da Dante agli altri); poeti mitici come Orfeo e Lino; Cicerone, maestro di retorica e pensiero civile all’intero Medio Evo; un gruppo di personaggi del «mito romano» (Elettra, Ettore, Enea, Camilla, Pentesilea, Latino, Lavinia); alcuni personaggi della storia romana (Bruto, Lucrezia, Giulia, Marzia, Cornelia e Cesare, fondatore dell’«ordo» imperiale); infine, la grande famiglia della filosofia e della scienza antica: Aristotele, «’l maestro di color che sanno», Socrate, Platone, il materialista Democrito, «che ‘l mondo a caso pone» (v. 136), Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone. Insomma, tutta la straordinaria tradizione intellettuale pagana, messa sotto il segno di una continuità con il presente, cui la rivelazione cristiana aveva apportato nuova ricchezza, – senza nulla toglierle dell’ enorme merito acquisito («Gran duol mi prese al cuor quando lo ‘ntesi, / però che gente di molto valore / conobbi che in quel Limbo erano sospesi», vv. 43-45). Pare a me che questa sia l’anticipazione cristiana dell’ Umanesimo più eloquente che si conosca. Ma le sorprese non finiscono qui. Se infatti colpisce che Dante voglia collocare nel Limbo tutti questi grandi rappresentanti della cultura e della storia pre-cristiane, colpisce ancor di più che la serie non finisca con l’avvento del Cristo (quando oramai l’ignoranza della vera fede dovrebbe apparire ancor più grave, e il recupero, dunque, da parte di Dante più audace). Ma in questo ambito, a imporre una profonda riflessione, interviene anche la specifica identità degli «spiriti magni» «non sommersi». Sono, infatti, anche loro di due specie: tra i pagani, il Seneca «morale», un altro degli autori antichi fondamentali per il cristianesimo medievale, e i grandi fondatori della scienza moderna, il botanico Dioscoride, il medico Galeno e l’astronomo Tolomeotra i musulmani (e qui c’inoltriamo su di un terreno ricchissimo di ambiguità e di suggestioni), il grande medico e filosofo persiano Avicenna, il leggendario filosofo arabo di Cordova Averroè, autore di un commento ad Aristotele, che influenzò tutti gli studi filosofici e teologici medievali, e, udite, udite!, il

Saladino (v. 129), ovvero il leggendario Sahl-ad-Din (1138 – 1193), sultano d’ Egitto, Siria e Mesopotamia, fiero antagonista dei Crociati cristiani di Terrasanta, che batté in numerose occasioni (l’alto ruolo in saggezza e abilità politica e militare, che il mondo cristiano gli attribuiva, è testimoniato anche dal Decameron di Giovanni Boccaccio). Si tenga presente, ad accentuare il rilievo di questa presenza, che il Saladino è, accanto niente meno che a Giulio Cesare, l’ unico rappresentante del principato assunto nel Limbo dantesco. Dunque, l’apertura intellettuale e religiosa di Dante è immensa. Non comprende soltanto coloro che, essendo nati prima dell’ avvento, non ebbero comunque la possibilità di conoscere la vera fede; ma s’allarga a tutti coloro che, dopo l’ avvento, hanno conseguito meriti tali da consentir loro d’ esser sottratti alla condanna infernale nonostante l’ assenza da parte loro della vera fede o pur avendo addirittura combattuto contro di essa. C’è, si direbbe, agli occhi di Dante un merito umano, una «mercede», per usare una parola sua, che salva dalle pene vere e proprie (quelle che consistono non nella privazione pura e semplice di Dio ma nel martirio di colpe determinate) e consente di queste anime una memoria venerabile e inimitabile, quand’anche non omogenea alla fede del credente, persino l’ indomito campione mussulmano ha il diritto d’entrare in questa schiera in virtù delle sue conclamate tolleranza e magnanimità. Il Limbo, insomma, – questo luogo pieno di pace e di dignitosa malinconia, un Eliso pagano appena appena cristianamente ravvivato, una desiderabile sede d’incontro e di conversazione con tali eccezionali e insostituibili interlocutori, – rappresenta l’ultima speranza dei non credenti, anche di quelli di oggi. Tolto di mezzo il Limbus puerorum, dissolto in cielo, come Dante racconta, il Limbus patrum, che fine faranno nell’universo mentale cristiano gli «spiriti magni»? Li raccomandiamo vivamente alla benevolenza della Commissione apostolica vaticana.

Approfondimentolimbo_diario_repubblica. 

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