Purgatorio. Elogio della vita imperfetta

Melania Mazzucco, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Nel luogo intermedio per eccellenza il Poeta incontra anime come la sua in lotta contro l’eterno oblio

Il Purgatorio ci aspetta. È un luogo insieme familiare e straniante. Chiunque, in qualsiasi cosa creda, e anche se non crede a nulla, riesce a immaginare l’Inferno, sia esso  ultraterreno oppure condizione già scontata su questa terra. E persino il Paradiso, per avere sperimentato la beatitudine almeno in un attimo felice dell’esistenza. Invece il  Purgatorio somiglia talmente alla nostra vita – o la nostra vita al Purgatorio – da non essere immaginabile se non come una prosecuzione della stessa, aggravata  all’inquietudine di averla mancata, di aver sbagliato qualcosa, e che sarebbe bastato poco per liberarci ed evitare di rivivere i nostri errori.
Così diventa una specie di appuntamento fastidioso. Già la parola scoraggia, condividendo la radice col verbo che nell’italiano moderno ha quasi perso il significato di lavare, depurare e purificare (purgare viene dal latino purgāre/purigāre e questo da purus), per  riferirsi ormai solo a un’azione forzatamente escrementizia. E il sostantivo suona ancor più sinistro. La purga è la cura depurativa e lassativa, la punizione dei bambini riottosi, e anche la violenza che gli stati autoritari attuano nei confronti delle persone considerate pericolose – i dissidenti, gli oppositori e i nemici. È perfino sinonimo di quarantena. Dante propone subito il Purgatorio come destinazione – del viaggio della sua vita, non del viaggio letterario della Commedia. E infatti lo rappresenta come un’isola, da sempre calamita di  fantasie di rigenerazione e rinascita. Questa certezza lo accompagna fin dalla spiaggia («per tornar altra volta / là dov’io son, fo questo viaggio», dichiara subito). E poi lungo la
salita del monte – a tronco di cono e terrazze, come la Torre di Babele – in cima al quale lo attende il paradiso terrestre. Che vedrà, descriverà, annuncerà con parole sublimi. Ma in cui non potrà né restare né tornare, per molto tempo. Nel Purgatorio, invece, soggiornerà ancora. 
E quindi tende a osservare e ascoltare tutto – paesaggio, alberi, creature – con  commozione partecipe. Soste, esitazioni e indugi gli procurano lungo il percorso svariati rimbrotti da parte di Virgilio. Ma Dante non rallenta il passo per la fatica fisica dell’erta e in fondo nemmeno per la curiosità del sito e delle penitenze (per quanto provvisorie, sempre affliggenti: occhi cuciti col fil di ferro, corse a perdifiato, salmodiare legati proni con la faccia a terra…): perché in realtà sfila davanti al suo passato – la giovinezza, in cui si rispecchia con malinconia – e al futuro che lo aspetta. Se potesse fermarsi, potrebbe forse ancora cambiarsi, e migliorare il suo destino. Ma il Purgatorio è appunto un luogo intermedio, di passaggio, come la vita, e non gli è dato. Non è un caso che la cantica si apra e si chiuda sull’acqua – elemento inafferrabile, proteico, sfuggente. La parola “acque” figura nel primo verso (la prima similitudine, nel preludio, paragona l’ingegno a una navicella che deve alzare le vele per correre “migliori acque”), e la parola “onda” nel quart’ultimo (Dante, dopo il “dolce bere” è pronto all’ascesa). Acqua che divide e congiunge, lava e cancella. Acqua dell’oceano che circonda l’isola. Acqua del Letè, che purifica corpo e memoria. Acqua dell’Eunoè, che predispone a salire alle stelle. Dante incontrerà dunque anche nel Purgatorio, come all’Inferno, le anime che lo abitano. Benché debba essere particolarmente affollato, prevalendo sempre la medietà sull’eccesso, con poche, in realtà, il pellegrino entra in contatto: appena una trentina. Gli somigliano, ci somigliano. Sono state persone imperfette ma non malvagie. Alcune, quelle bloccate nell’Antipurgatorio, sono morte troppo presto, e non è di per sé una colpa: scomunicati, negligenti, pentiti in extremis, ammazzati. 

Le altre non hanno vinto i vizi che assillano gli esseri umani – la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la prodigalità, la gola, la lussuria. Vizi che tutti o in parte affliggono anche ognuno di noi. Alcuni di essi – come la passione del papa di Torso (Martino di Tours) per «le anguille di Bolsena e la vernaccia» – muovono a un complice sorriso. Insomma, sono come noi, siamo noi. Dante si vede già camminare dietro il muro di fiamme coi lussuriosi, e il pensiero non lo sconforta. Dante le lascerà parlare, queste anime ammansite dalla certezza di essere state, nonostante tutto, perdonate. Ascolterà le loro storie – talvolta con pazienza (Bonconte da Montefeltro si dilunga, ma il poemetto autobiografico sulla sua morte si lascia gustare come un racconto a parte).
Tuttavia accade che la sua attenzione e la nostra divergano. Il Purgatorio di Dante è vincolato al tempo. Non tanto però, come rimarcano i commentatori, perché riappaiono nella cantica le notazioni cronologiche, le osservazioni sulle ombre e sulla posizione del sole che scandiscono il trascorrere del giorno (e così precise che si può perfino datare l’ambientazione a una mattina specifica del 1300). Perché il Purgatorio – di tono così diverso dal crudo, selvaggio realismo degli inferi, e dal lirismo terso dell’empireo – è nella prima metà una specie di giornale locale. Ogni tanto si affaccia un protagonista della Storia grande, nazionale e internazionale (quasi sempre una presenza sorprendente, come il pagano e suicida Catone Uticense, l’imperatore Manfredi, il re Ugo Capeto, o il papa Adriano V), ma i più sono arroganti signorotti di provincia e condottieri che non compirono imprese memorabili, oppure personaggi pittoreschi e celebrità minori della Toscana. Erano stati suoi amici.
Ci sono il cantore Casella fiorentino, che dietro sua richiesta, per consolazione, intona dolcemente la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, composta da Dante dopo la morte di Beatrice; Belacqua, il bottegaio che fabbricava liuti e chitarre, e il giudice Nino Visconti, nostalgico della figlia e afflitto dalla dimenticanza della moglie, perché “in femmina” il fuoco d’amore dura poco se non alimentato da occhio o tatto. Il quinto canto è 
quasi cronaca nera. Dante e i suoi lettori conoscono tutti, per questo lui non ha bisogno di spiegare troppo. «Io son la Pia», sussurra la donna uccisa dal marito che lo prega di ricordarsi di lei, e il nome di battesimo, e i riferimenti riferimenti geografici a Siena e alla Maremma bastano a identificarla, perché l’eco del suo omicidio è ancora fresca nella memoria. Ma ci sono, soprattutto, tanti scrittori. Ai quali viene concesso uno spazio inaudito. Oggi stupisce il rilievo di Stazio, poeta latino ormai riservato agli specialisti, ma al tempo di Dante (sebbene la sua produzione fosse nota solo in parte) considerato  maestro di epica secondo soltanto a Virgilio. La truculenta Tebaide e l’Achilleide incompiuta Dante aveva letto avidamente tanto da conoscerne a memoria similitudini ed episodi. Così non solo lo gratifica di una biografia completa di curriculum, ma affida a lui il compito di istruirlo sulle cause dei terremoti che squassano il monte e sui rapporti fra l’anima e il corpo. E a lui fa proferire l’elogio di Virgilio e dell’Eneide – mamma e nutrice 
di tutta la letteratura successiva e maestro di Dante stesso. Forse Dante credeva alla leggenda della conversione segreta di Stazio al cristianesimo, o forse no. Certo aver scelto due poeti morti da più di un millennio come guide verso la salvezza è una professione di fede nella poesia.
A Guido del Duca che gli chiede chi sia, risponde con modestia: «Il mio nome è poco noto». E proprio mentre minimizza la sua fama (e anche la sua origine, di cui pure era fiero, riducendo l’Arno a un “fiumicello” qualsiasi) acquista significato la preghiera della Pia, ascoltata alcuni canti prima: «ricorditi di me». Questa opposizione fra rinomanza e oblio, questa contraddizione fra desiderio disperato di immortalità artistica e fede che l’unica immortalità possibile sia quella in Dio, ci rende più vera e più vicina la Commedia – un monumento altrimenti troppo immenso per la nostra comprensione. E più vivo l’autore, il massimo poeta nostro e di ogni tempo, ma simile a tutti gli scrittori di questo mondo, e a tutti gli uomini e le donne che vorrebbero essere qualcosa, lasciare una qualunque memoria di sé, e quasi sempre sono invece un fioco bagliore che subito si spegne alla luce fissa delle stelle. Solo nella cantica più personale e sommessa, il Purgatorio, un segreto così bruciante poteva essere confidato. 

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