Canto VI

Giustiniano, Basilica di San Vitale, Ravenna

“Non da forza [l’impero] fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza. E in ciò s’accorda Virgilio nel primo de lo Eneida quando dice, in persona di Dio parlando: A costoro – cioè a li Romani – né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine”.  Convivio, IV, 11

L’impero romano d’Oriente alla morte di Giustiniano

Andrea CarandiniGiustiniano e il lungo volo dell’aquila imperiale

Come diverse voci si armonizzano fra loro, così i diversi gradi di beatitudine in un Paradiso privo di invidia, e Dante — medievale cosmonauta — visita i beati salendo per i cieli. Ora è approdato a quello di Mercurio, in cui sono gli spiriti che hanno fatto il bene. Sciamano verso Dante come pesci fosforescenti nella peschiera —piccoli astri fulgentissimi che fluttuano liberamente come esseri d’acqua—e uno di questi spiriti si rivolge a lui, nascosto nel suo raggio. Il discorso della «figura santa» — ancora sconosciuta— occupa (eccezionalmente) un canto intero. Riguarda due millenni e mezzo di vicende umane, scanditi a metà dalla venuta del Redentore. Ma questo «prima» e «dopo» Cristo appaiono nell’orazione fusi nel concetto di Roma eterna, simbolizzato dal «segno sacrosanto» dell’aquila.
«Cesare fui e son Giustiniano», rivela al decimo verso il luminoso pesce, avido di Dante come di un’esca irresistibile. Così dal rifulgente oro dello sfondo si staglia, nimbata e incoronata, la figura dell’imperatore, come nel mosaico di San Vitale a Ravenna, ben noto al Poeta. Quando quell’imperatore regnava a Costantinopoli, nel cuore del VI secolo d.C., l’Impero di Occidente era caduto e Roma era già rovina (ma questo Dante non lo sapeva). È il vuoto creato dalla leggenda rutilante della Roma cristianizzata che doveva riempire.
Il confronto con l’impero bizantino, che invece imbalsamato resisteva, era diventato insostenibile nella Roma dell’VIII secolo d.C., quando un enorme strato di terra nera si era posato su porfidi e serpentini, così che un papa a noi sconosciuto nell’Urbe ridotta a un villaggio, invidioso di una Costantinopoli d’avorio e oro, vergò il più famoso falso della storia: un testo nel quale l’imperatore Costantino donava l’impero di Occidente al papa di allora, che si chiamava Silvestro. L’eternità di Roma veniva in tal modo restaurata ed il vuoto colmato. Il falso verrà scoperto soltanto nel 1440 da Lorenzo Valla—120 anni dopo Dante—e solo da allora l’imperatore latino potrà apparire come una mera invenzione della Chiesa. Con quel falso cadde anche il mito narrato da Giustiniano e ha inizio il Rinascimento e, con esso, la modernità in cui viviamo.
Il mito si basa su una falsificazione, che rivela tuttavia una realtà mentale storicamente vera che è alla sorgente di secoli di accadimenti umani reali. Non è un caso che il mito di fondazione del Medioevo appaia rappresentato nel suo massimo splendore proprio nel Paradiso, alle soglie della fine di quel mondo, in una vertiginosa ricapitolazione di secoli fatta a volo di uccello. L’uccello è l’aquila che, lasciata Troia, è approdata nel Lazio, seguendo il corso naturale del sole verso Occidente. È l’aquila di Enea, padre dell’impero. L’aquila nidificherà prima ad Alba Longa e poi a Roma, finché con Costantino, insediato a Costantinopoli, novella Roma, il divino uccello tornerà contro l’ordine naturale in Oriente, da dove era partito, ed è qui che soggiornerà fino a Giustiniano, l’imperatore che in accordo con la Chiesa e ispirato dallo Spirito Santo cede il potere militare a Belisario per dedicarsi a depurare le leggi di Roma e consegnarle al futuro cristiano.
In un’unica processione trionfale sfilano davanti a noi, rievocati dal più giusto dei principi, re, consoli e imperatori di Roma. Sono questi summi viri ad aver creato l’impero universale della giustizia e della gloria terrene, voluto da Dio perché unificazione e pacificazione del mondo erano il presupposto per la nascita e la passione di Cristo.
L’eloquenza è somma, grande la poesia dell’intelligenza, minimi gli squarci lirici, in questo discorso che Giustiniano lancia dal cielo al mondo. I Cartaginesi vinti da Roma sono chiamati Aràbi, per cui non vi sono tempo e spazio a intralciare il grandioso disegno, come è giusto che nei miti sia, per le emozioni che tutto fondono. Ed il contagio mitistorico si propaga da quel Paradiso fino a noi, che nell’aquila incanutita (leucocephala), ma ancora sommamente potente (emblema degli Stati Uniti dal 1782) tanto da dardeggiare ancora i novelli Aràbi— Franklin avrebbe preferito all’aquila il tacchino!— riconosciamo la tentazione ad un novello impero: un grande disegno imperituro? È come se unità e pace non potessero essere fondate che su guerre vinte—Pallante contro Turno, Carlo Magno contro i Longobardi, Inglesi e Americani contro Hitler… quasi che solo l’impero universale riesca a piegare su questa terra, assistito dal cielo, frazioni e fazioni, come Ghibellini e Guelfi al tempo di Dante che si appropriavano o si opponevano al «sacrosanto segno », preferendogli i gigli d’oro della casa di Francia.
È come se errore e ingiustizia delle cupidigie particolari che dilaniano la terra non potessero essere vinti che dell’aquila divina, che ha gli artigli per «strappare il pelo» alle potenze bestiali e barbare. Gli uomini possono cambiare bandiera, ma non Dio, sempre dalla parte del re dei volatili apportatore di guerra, pace e giustizia, fino alla riabilitazione dal Paradiso dei giusti senza rifugio, come l’ignoto Romeo di Villanova, controfigura di Dante esiliato, ora trionfante anche lui, poveretto, nella imperiale riabilitazione.
Dante aveva studiato a Bologna il diritto romano cristianizzato da Giustiniano, che dal XII secolo era stato riscoperto in Occidente e che era il sacro libro della giustizia universale di questo mondo. In terra; l’Impero unico del papa e del principe tedesco, vicario e sottovicario di Dio; oltre essa, il Paradiso dove siede Dio. Il resto è inciviltà e frantumazione: Galli, Cartaginesi, Longobardi e Aràbi, ma anche comuni, signorie e regni territoriali. Cosa se non la leggenda dei millenni centrata su Roma poteva consolare il poeta perseguitato, che fra gli ultimi non si arrende alle nascenti potenze sorte dalla crisi dell’universalismo germanico, che formano l’universo umano del futuro: Venezia-Firenze- Genova-Milano, Portogallo e Spagna, Paesi Bassi, Francia, Gran Bretagna, la Germania e gli Stati Uniti (e qui per ora ci fermiamo).
In questa visione mitica plurimillenaria riconosciamo ancora oggi la ragione prima di tutte le miserie della penisola italiana, patria particolare delle mire imperiali di papi e imperatori e mai veramente patria di sé stessa, per cui la nostra storia affamata di identità condivisa ancora si radica in quella leggenda.
Ma se gli uomini del Medioevo si pascevano di Pallante figlio di Evandro, Enea, Orazi e Curiazi, Lucrezia, Camillo, Curio Dentato, Cincinnato, Deci, Fabi, Scipioni, Pompeo, Cesare, Augusto, Tiberio, Tito, Costantino e Carlo Magno — come dimostra il discorso di Giustiniano — cosa hanno scoperto mai gli Umanisti italiani che è riuscito a capovolgere il mondo medievale fin qui descritto? Hanno posto fine al sapere sistematicamente mitistorico fondato sulla leggenda dell’aquila eterna ed hanno instaurato quello della conoscenza storica. Cultura ed etica pagane non vengono da loro asservite ai valori cristiani di Chiesa e Impero ma sono finalmente oggetto di studio in sé.
Dopo l’antichità classica verranno scoperte le civiltà orientali, quelle culture preistoriche e infine quelle primitive di oggi. I primi umanisti italiani appaiono pertanto anche come i primi etnologi. Partendo della classicità ha così inizio quella scoperta- comprensione storico-antropologica del globo: fra i pochi frutti non avvelenati e di straordinaria rilevanza che la civiltà europea possa ancora offrire al mondo. Un universalismo della civetta, del tacchino, non più dell’aquila. Ma l’aquila canuta ogni tanto riprende il volo.

Il CORPUS IURIS CIVILIS

MINIATURISTA URBINATE XIV-XV secolo Biblioteca Vaticana, Ms. Urb. Lat. 164, fol. 77r Giustiniano presenta il suo Codice al Papa seduto fra Agostino vescovo e san Gerolamo

MINIATURISTA URBINATE, XIV-XV secolo, Biblioteca Vaticana, Ms. Urb. Lat. 164, fol. 77r, Giustiniano presenta il suo Codice al Papa seduto fra Agostino vescovo e san Gerolamo

 

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