Canto III

Priamo della Quercia (Siena, 1400 circa – 1467), miniatura, Inf., canto III, British Library, Londra

“Al passare quella porta tutto l’orrore e il dolore di quel mondo – fatto di uomini anch’esso, ma senza più luce, né speranza, di cui gli uomini vivono- assale il poeta e il lettore con le grandi e dolenti immagini che sono nella memoria di tutti: Quivi sospiri, pianti ed alti guai/ risonavan per l’aere sanza stelle,/ per ch’io al cominciar ne lagrimai... Ma in questo straordinario e nuovo racconto un’altra lontana e grande voce risuona, che ne raddoppia e dilata la dimensione storica e poetica: se tutti gli interpreti ne sottolineano, infatti, la novità e drammaticità, tutti egualmente vi riconoscono il più scopertamente “virgiliano” tra i cento canti della Commedia. I due dati sembrano a prima vista in contrasto tra loro, ma si rendono invece ragione l’uno dell’altro.

Ogni nuovo linguaggio poetico infatti nasce e trova la sua vera identità misurandosi su quello che lo precede. E nessun precedente si riconosce la Commedia – né lo ha – se non appunto Virgilio. La grande vicenda del VI dell’Eneide – la discesa di Enea agli inferi – si rilegge qui, a distanza di un millennio, come in trasparenza, oltre i versi dell’altro grande poeta della civiltà latina. Il dramma dell’uomo – della sua morte, del suo destino dopo la morte – è ciò che attrae ed accomuna la poesia dei due spiriti fraterni, in un incontro che non si è altrimenti ripetuto nella storia della poesia umana. Ma la forza, la diversità del secondo si accresce e si rivela in questo potente confronto, da cui la nuova poesia prende appunto le mosse, e acquista d’un tratto una risonanza storica secolare, accogliendo e ricreando, secondo il nuovo spirito proprio del suo tempo, la più grande arte poetica conosciuta del mondo antico. La melanconia del mondo precristiano, privo di futuro, che avvolge i pallido mondo degli inferi descritto da Virgilio, cambia qui voce nel tragico inferno cristiano, oltre il quale esiste un’altra realtà, di luce e di speranza, e dove il dolore è irrevocabile perdita di un bene infinito che all’uomo è pur consentito raggiungere. Di tale ulteriore realtà, di tale possibile bene, è già dato in questo canto l’annuncio, nel veloce accenno, che affiora nelle parole di Caronte, all’altra spiaggia concessa all’uomo“.
Anna M. Chiavacci Leonardi, in Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, pp. 42-43

CARONTE, Voce dell’Enciclopedia Dantesca, di Francesco Vagni

Caronte (Carón). – Nome del demonio guardiano dell’Inferno e nocchiero dell’Acheronte (If III 70-136). Per quanto non compaia nell’Odissea, C., divinità ctonia minore, è misteriosa figura del più antico mito ellenico: figlio dell’Erebo e della Notte, ministro di Ade, sulla sua cimba traghetta le anime dei morti (sepolti) sulla tetra palude di Acheronte. Gli antichi (Greci, Etruschi, Romani) ponevano, per radicata superstizione popolare, nelle tombe, dopo le esequie, l’obolo per il traghetto del fiume infernale. Una tradizione figurativa e letteraria, che si svolge per un arco assai ampio di secoli, gli attribuisce un aspetto prima severo e poi decisamente truce e demoniaco (presso gli Etruschi). […]

A parte il carattere cruento, il C. virgiliano, che pur rimane un dio, risente delle deformazioni del demone etrusco (cfr. G.Giannelli): ” portitor… horrendus… / terribili squalore Charon, cui… / canities inculta iacet, stant lumina fiamma, / sordidus… dependet amictus ” (Aen. VI 298-301). Tuttavia è doveroso affermare che proprio uno dei tratti più espressivi della fisionomia di C. (” stant lumina fiamma “) traduce pressoché alla lettera il probabile epiteto abituale del dio, l’aggettivo greco χαροπός (” dagli occhi folgoranti “), che nella sua forma sincopata (cfr. Forcellini) sembra aver dato origine al nome stesso di Χάρων.

La presenza del nocchiero nell’affresco del trecentista Nardo di Cione in S. Maria Novella è notevole per la sua arcaicità. Le interpretazioni originali e fedeli di D. si hanno soprattutto nella raffigurazione dell’Antinferno del Signorelli (Gli angeli che cacciano i reprobi all’inferno) nella Cappella di San Brizio a Orvieto e con il Giudizio Universale di Michelangelo. Sulla parete di fondo della Cappella Sistina la figura cupa ed erculea del demonio, che si avventa col remo contro i dannati, ha la potenza rovinosa e selvaggia di una furia e dello scatenarsi di una misteriosa forza naturale. La deformazione demoniaca è evidente nell’aspetto satiresco, negli occhi irosi, sporgenti e sbarrati del forsennato.

Il pittore romantico E. Delacroix dipinge D. e Virgilio sulla barca di Flegiàs (1822) attraverso la palude Stige tra minacciosi iracondi e con la città di Dite sullo sfondo (If.  VIII). E una tela giovanile ma importante, perché rivela la sua vocazione interiore, visionaria e drammatica; Baudelaire ne parlerà a più riprese, specialmente a proposito del Salon del 1846. Tra i modelli tenuti presenti, oltre alla famosa Zattera della Medusa di Géricault, i critici hanno indicato con sicurezza alcune incisioni del Giudizio di Michelangelo, dove figura la barca di C.; il quadro sarà poi copiato da Corot, Courbet, Manet, Cézanne. Infine incontriamo proprio l’autore di Les Fleurs du Mal nel suo Don Juan aux Enfers: ”Intenso quadro senza colore, tutto contrasto di bianchi e di neri” (G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Bari 1966, 22-24). Nella scena che si svolge C. riceve l’obolo, ma è esautorato nelle sue funzioni vere; il povero mendicante, che il peccatore durante l’incontro nella foresta voleva indurre a bestemmiare, ora stringe con forza vendicatrice il remo e voga fiero e ostinato, come uno strumento della giustizia divina, trasportando don Giovanni alla pena eterna, mentre il convitato di pietra regge, inflessibile, il timone.

Michelangelo, Il giudizio universale, particolare della barca di Caronte, Cappella Sistina

LA COMMEDIA COME FONTE POETICA NELLE ARTI FIGURATIVE

 di Carmelo Occhipinti, Ricercatore nelle discipline storico-artistiche presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Dal sito www.treccani.it

Subito dopo il suo scoprimento, il 31 ottobre 1541, sulla parete di fondo della Cappella Sistina il Giudizio finale riscosse lodi iperboliche. Sollecitati dalla potenza dell’opera, dalla grandiosa immagine di terrore che essa evocava, i primi osservatori contemporanei associarono il nome del suo autore a Dante, e l’affresco alla Commedia. Associazione destinata a godere di tradizione ininterrotta, trovando nella letteratura critica di ogni epoca le più diverse motivazioni, non solo nei confronti dello sforzo supremo di creazione, ovvero del tragico titanismo del ‘divino’ Michelangelo, ma anche, più o meno discutibilmente, nei possibili riferimenti puntuali al testo dantesco. Quando nel 1550, nella prima edizione delle Vite, Vasari affermava, di fronte alla “forza di tal opra”, come Michelagnelo avesse “verificato il detto di Dante, ‘morti li morti, i vivi parean vivi’…”, il biografo non faceva che accogliere l’opinione ormai diffusa: appena nel 1549, per esempio, il letterato fiorentino Benedetto Varchi, buon amico di Vasari, aveva osservato che il Buonarroti aveva avuto Dante “sempre dinanzi agli occhi”; e già nel 1542 si deve credere che il pittore Sebastiano del Piombo pensasse a quegli stessi versi della Commedia nel dichiararsi smarrito – come avrebbe poi raccontato Pietro Aretino nella Talanta – di fronte a tante figure dipinte, che gli sembravano “vive”, forse ancor più vive degli uomini stessi che venivano ad ammirare l’opera restandone, dunque, così emotivamente coinvolti.

Riferimenti puntuali al testo della Commedia non tardarono a essere suggeriti. Osservando Caronte che traghetta le anime dannate tra figure bestiali di diavoli dagli occhi allucinati (che sarebbero piaciute ai surrealisti), Varchi si chiedeva: “chi vede quel suo Carone, che non gli venga subito su la mente quel terzetto di Dante ‘Caron demonio…’?” Una simile figura, che veniva dalla mitologia pagana, avrebbe destato scandalo in anni di Controriforma; ma diversi scrittori finirono per giustificarla ricorrendo all’autorità di Dante nonostante che, in effetti, il pittore avesse ceduto alla propria libera inventiva, per avere raffigurato Caronte sbarbato e nient’affatto bianco per antico pelo.
Lo stesso potrebbe dirsi del Minosse, che la letteratura critica tradizionalmente avrebbe associato al personaggio dantesco, nonostante la divergenza dal testo: Minosse era per Dante un mostro dalla lunga coda, e non questo dannato, crudelmente tormentato dal serpente che gli si avvolge intorno al corpo, come Michelangelo invece lo immaginava mettendogli le orecchie d’asino (pensando di ritrarre così il molesto segretario papale che lo aveva offeso…). Persino il grande pittore francese Eugène Delacroix sarebbe rimasto assai più tardi impressionato da questa invenzione: ma niente del genere si trovava nella poesia antica e medievale; il riferimento a Dante, invero puramente letterario, era stato sì suggerito da Varchi (“Chi non si ricorda, quando vede Minosso, di quell’altro nel V canto de l’Inferno: ‘Stavvi Minòs orribilmente e ringhia’?”), ma la gran parte degli studiosi fino al nostro tempo ne avrebbe visto un richiamo puntuale alla fonte poetica. […]
Il richiamo agli affreschi della Cappella di San Brizio dentro il Duomo di Orvieto, eseguiti da Luca Signorelli tra il 1499 e il 1504, era stato suggerito già da Vasari: “Onde io non mi maraviglia se l’opere di Luca furono da Michelagnolo sempre sommamente lodate, né se in alcune cose del suo divino Giudizio, che fece nella Cappella, furono da lui gentilmente tolte in parte dalle invenzioni di Luca, come sono angeli, demoni, l’ordine de’ cieli e altre cose, nelle quali esso Michelagnolo imitò l’andar di Luca, come può vedere ognuno”. La cruda fisicità delle figure diaboliche e dei corpi ammassati e contorti nelle scene dei Dannati che entrano all’Inferno e del Giudizio universale hanno da sempre evocato il poema dantesco; in effetti, tra gli ornamenti dello zoccolo della stessa cappella trova posto il ritratto di Dante, accompagnato da raffigurazioni del Purgatorio, insieme ai ritratti di Stazio, Virgilio, Lucano, Ovidio e Cicerone.

Virgilio, Eneide, VI, vv. 298-304

Hinc via Tartarei quae fert Acherontis ad undas.
Turbidus hic caeno vastaque voragine gurges
Aestuat atque omnem Cocyto eructat harenam.
Portitor has horrendous aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iaceet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
Ipse ratem conto subigit velisque ministrat
Et ferruginea subvectat corpora cumba,
iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.
Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris immittit apricis.
Stabant orantes primi transmittere cursum
tendebantque manus ripae ulterioris amore;
navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos,
ast alios longe submotos arcet harena.

Di qui la via che porta alle onde del Tartareo Acheronte.
Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine
Ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia.
Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume
Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie
Incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,
sordido pende dagli omeri annodato il mantello.
Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele,
e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno,
vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza.
Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,
donne e uomini, i corpi privati della vita
di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle,
e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri:
quante nelle selve al primo freddo d’autunno
cadono scosse le foglie, o quanti dall’alto mare
uccelli s’addensano in terra, se la fredda stagione
li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate.
Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto
e tendevano le mani per il desiderio dell’altra sponda.
Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,
gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.

Traduzione di L. Canali.

APPROFONDIMENTO: P. Armellini, Unreal city: la città dei morti di Eliot da Dante al graphic novel

Storia di un’immagine: gli  uomini e le foglie. CLICCA QUI.

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso dell’altra, infin che il ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie;
similemente il mal seme d’Adamo:
gittansi di quel lito ad una ad una
per cenni, come augel per suo richiamo.

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