Canto III

Sandro Botticelli, Illustrazione per il canto III del Paradiso: il cielo della Luna.

Piccarda, Pia, Francesca e le altre

VIDEO: un breve commento di R. Bruscagli.

G. Lavia, Donne nella Commedia

Paola Capriolo, L’invidia senza peccato nell’anticamera del Paradiso

La scrittrice Paola Capriolo reinterpreta il canto III del Paradiso: il punto di vista dominante, ora, è quello di Piccarda.

Sorride sempre, Piccarda Donati: di quel quieto, contenuto sorriso che già le sfiorava così spesso le labbra nel chiostro delle clarisse; ma adesso si è fatto ancora più pallido, e più malinconico. Sarà per questo, si domanda, che lui fatica a riconoscermi? Nella lucida, cristallina atmosfera che pervade il cielo della luna mi guarda come se io fossi un’immagine appena delineata nel fondo di uno specchio, e si volta persino indietro per scoprire a chi appartenga questo vago riflesso. Ma qui, dovrebbe saperlo, siamo tutti pallidi, del pallore di una perla che si distingua a stento su una fronte bianchissima; nulla a che vedere con il prorompente splendore della donna che l’accompagna e che pure sulla terra non era molto diversa da me, una giovane e avvenente patrizia fiorentina in cui chiunque (o quasi chiunque) poteva imbattersi senza gridare al miracolo, per strada o nella navata di una chiesa. Come è mutata da allora, quale vertiginosa ascesa ha compiuto, mentre a me tocca dimorare in questo suburbio del paradiso e accontentarmene, per giunta, poiché se desiderassi di più non sarei neppure degna della modesta beatitudine che mi è stata accordata.

Di più, infatti, non desidero: lo dico e lo ripeto a quest’uomo che ricordavo giovane e allegro, sempre pronto ad abbandonarsi alle burle con mio fratello Forese, e che adesso mi ascolta compunto annuendo gravemente ad ogni parola. Anche Beatrice annuisce, e come se le mie spiegazioni non fossero abbastanza chiare si volge verso di lui per istruirlo con piglio dottorale: è vero, gli dice, che la gloria del Primo Motore penetra e risplende per l’intero universo, ma non dappertutto nella stessa misura. In una parte penetra di più, e meno altrove, aggiunge calcando leggermente la voce sulle ultime parole, ma non certo per avarizia o difetto della divina volontà, di quel mare infinito e inesauribile nel quale ogni cosa confluisce. No: Egli elargisce la Sua grazia a ciascuna creatura nell’esatta proporzione in cui questa è in grado di accoglierla, né più né meno, sicché un minor grado di beatitudine corrisponde sempre a un merito inferiore. Se per esempio una fanciulla si vota allo Sposo celeste, rinunciando al mondo per chiudersi nel santo abito di Chiara d’Assisi, e poi, sia pure costretta, rompe il suo voto, acconsente a nozze profane.
Non una volta, mentre così va ragionando, la splendente Beatrice dalla veste di fiamma si degna di posare lo sguardo su di me, ma l’allusione è fin troppo palese. Se io non fossi, dopo tutto, un’anima beata, e come tale pervasa da indefettibile spirito di carità, cercherei conforto nel pensiero che mio fratello Corso, reo di avermi strappata al convento, sarà presto sbalzato di sella da un cavallo imbizzarrito e trascinato dalla sua furia sin nel fondo dell’inferno, oppure monterei in superbia all’idea di condividere la stessa sorte con la madre di un imperatore, quella grande Costanza d’Altavilla che da tempo si aggira qui intorno in attesa che i visitatori le rendano omaggio. Invece continuo a sorridere, di un sorriso quieto e rassegnato, mentre Beatrice spiega come neppure la violenza esercitata su di lei basti a giustificare del tutto quell’ipotetica fanciulla, nemmeno se il dolore la uccide poco dopo le nozze e la sua anima straziata torna a bussare alla porta del primo, amatissimo Sposo. Le sarà aperto, senza dubbio; però dovrà accontentarsi dell’anticamera, mescolandosi alla folla speranzosa dei famigli cui il padrone dedica distrattamente al passaggio un cenno di saluto.
E di ciò bisogna anche ringraziare, bisogna essere felici. Bisogna assicurare all’impietosito visitatore che davvero non vi è nulla di cui rammaricarsi: la beatitudine è così, in una parte più e meno altrove, saggiamente ripartita secondo le norme di un’eterna giustizia. Per questo, vedi, in questo cielo della luna tutto ti appare così diafano ed evanescente: perché a raggiungerci è soltanto l’estremo riverbero della grazia. Non un fuoco, ma solo un bagliore remoto che non può infondere alle nostre sembianze i caldi colori della vita. A volte ci consoliamo pensando che tutto ciò è soltanto illusione: che in realtà non ci troviamo affatto qui, in quest’algida sfera di diamante, ma lassù nell’empireo, confusi tra gli altri beati e non meno prossimi di loro all’eterna scaturigine dell’essere. È proprio così, Beatrice potrà confermartelo. Il più augusto tra i serafini, il più ispirato tra i profeti, San Pietro, San Francesco, San Giovanni (Battista o Evangelista, quello che preferisci): dimmi tu il nome di qualcuno che ti sembri degno della somma ricompensa, e ti dimostrerò che la sua vera sede non è diversa dalla mia; o meglio, te lo dimostrerà Beatrice, abile com’è nell’argomentare. Ma ci si è compiaciuti, lassù, di dare a certe distinzioni puramente interiori una sorta di evidenza plastica, facendo sì che i beati raccolti effettivamente nell’empireo ai piedi del trono divino appaiano, come per un’illusione ottica, distribuiti ciascuno secondo il suo rango nelle diverse sfere celesti, dalla più alta sino a quest’infima propaggine del paradiso.
L’intenzione, forse, era di rendere più facile l’orientamento a te e ad altri eventuali visitatori; o forse si è trattato semplicemente di un gioco, un gioco divino, cui noi dobbiamo prestarci pur senza trarne divertimento, come spesso avviene anche sulla terra quando il Signore, per metterci meglio alla prova, sembra prendere gusto ad infliggerci le sue sapienti mortificazioni. Perché noi ci crediamo, a questo gioco: non ci sembra affatto di vivere nell’empireo, gomito a gomito con i santi e con i serafini, e vediamo crudelmente rispecchiata la nostra inadeguatezza in questa densa sfera di cristallo dove la luce filtra con tanta parsimonia.
Lo so, sei stanco di guardarmi: il mio volto è così sbiadito da costringerti a uno sforzo per coglierne le espressioni, e sempre più spesso i tuoi occhi corrono senza volerlo alla nitida, fiammeggiante figura di Beatrice. Presto ve ne andrete, più rapidi di una freccia che arriva a segno mentre la corda vibra ancora, poiché il vostro desiderio di ascesa ammette solo brevissimi indugi. Qui invece i movimenti sono torpidi e orizzontali, spogliati di ogni slancio da un perpetuo stato di rassegnazione, e quando prenderò congedo da te mi vedrai svanire a poco a poco, come affondando in un’acqua cupa e stagnante. Eppure sono convinta che mi seguirai con lo sguardo, a lungo, fino all’ultimo. Fingerai di non notare i cenni impazienti di Beatrice, anzi, credo che per qualche istante ne dimenticherai persino la presenza, tanto ti sentirai attratto dal lento dileguare del mio sorriso. Sei un poeta, e non è forse vero che i poeti subiscono più degli altri il fascino della malinconia?
E davvero, appena pronunciate queste parole, Piccarda Donati comincia lentamente a scomparire dissolvendosi nella vaga luminescenza della sfera lunare, e il visitatore la segue con lo sguardo, a lungo, fino all’ultimo; poi, come chi si sia destato da un sogno, torna a volgersi obbediente verso la sua guida. Ma il ricordo di quel sorriso lo accompagnerà sempre nell’ascesa all’empireo, e persino lassù, nella rosa dei beati, gli sembrerà di scorgerne per un attimo il pallido bagliore.

Dante Gabriel Rossetti: le opere ispirate a Dante.

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