Sovranisti e fascisti, giù le mani da Dante

Christian Raimo, Sovranisti e fascisti, giù le mani da Dante, “L’Espresso”, 12 luglio 2019

Esule anticompromessi. Eroe risorgimentale. Padre della patria. Nazionalista. Il sommo poeta è una figura contesa. E oggi se lo accaparrano pure i salvinisti e Casa Pound. Così la Divina Commedia è diventata una sorta di I-Ching dalla quale captare citazioni buone per qualunque causa

Il neonazionalismo ama molto Dante. Diego Fusaro lo difende da un fantomatico attacco dai globalisti. L’ultimo libro di Adriano Scianca, direttore di Primato nazionale, intellettuale organico di CasaPound, “La nazione fatidica”, dedica a Dante Alighieri una digressione molto lunga, facendone una specie di archetipo spirituale: «Colui che per primo, nell’era post-romana, ha presentito in modo eminente la natura fatidica dell’Italia è stato sicuramente Dante Alighieri, padre spirituale della patria – se mai ve ne fu uno. Giuseppe Antonio Borgese ha scritto di lui che “fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”. Più profeta che scrittore quindi».
Per gli studi danteschi c’è almeno mezzo secolo di bibliografia, soprattutto di medievisti e storici, che ha ragionato sulla ricontestualizzazione di un Dante all’interno del suo secolo, del suo contesto letterario e culturale, e non come una sorta di personaggio iconico: ogni volta esule, genio, italiano ante-litteram, o appunto profeta. Giuliano Milani e Antonio Montefusco hanno ricostruito questo passaggio chiave in un articolo del 2014 che non a caso si intitola «Prescindendo dai versi di Dante».
Ma il Dante sovranista, neofascista, è l’ultima versione di una tradizione di lettura politica nazionalista che si è sviluppata parallela e intrecciata a quella della ricezione letteraria. È stato da sempre così: del profilo di Dante si può fare l’uso più vario. Si può iconizzarlo, monumentalizzarlo in tanti modi, anche in effigie su banconote e monete per renderlo il protagonista indiscusso dell’identità nazionale: dopo la proclamazione della Repubblica sulle 500 lire, poi sulle diecimila lire, e infine oggi sui due euro.
Dante Alighieri può diventare, è diventato, un feticcio, in ogni fase politica, per ogni idea della nazione. Dante risorgimentale, Dante padre della patria, ovviamente Dante fascista. Luigi Scorrano ne “Il Dante ‘fascista’: saggi, letture, note dantesche” ha analizzato i manuali di scuola e mostrato come questo Dante fascistizzato, neonazionalista, semplificato fino a essere ridotto a feticcio, circolasse in ambienti culturali anche non appartenenti direttamente al regime. Stefano Albertini scrive in “Dante in camicia nera: uso e abuso del divino poeta nell’Italia fascista”: «Durante il fascismo non c’era un discorso ufficiale, dal Duce all’ultimo direttore didattico, che al punto di ricordare le glorie patrie, di questa stirpe di poeti, santi, eroi e navigatori, non includesse in pole position il poeta fiorentino. (…) Le ossa di Dante venivano riesumate e analizzate con gran cura con un procedimento a metà strada tra la recognitio exuviarum che precede i processi di beatificazione e l’analisi antropologico-scientifica di stampo positivistico-lombrosiano. A Ravenna si inaugurava con grande solennità nel 1936 una “zona dantesca”, e per Roma si elaborava il progetto ancora più ambizioso di un complesso monumentale dedicato a Dante, il Danteum».
Non è certo completamente responsabilità di chi da politico se ne serve il fatto che Dante venga usato persino come padre del fascismo e precursore del sovranismo. Se è evidente che l’influenza di Dante è planetaria e millenaria – Harold Bloom prende la sua opera e quella shakespeariana come centri d’irradiazione del canone occidentale – è altrettanto chiaro che in Italia, ancora più che per altri paesi, la letteratura fa la politica.
Nel libro “Petrarca, l’italiano dimenticato” (2004), Amedeo Quondam può affermare come nella costruzione di una identità nazionale modellata su quella letteraria, la figura di Dante – la sua santificazione e la damnatio memoriae di Petrarca – abbia funzionato – con le due poetiche, “petrarchismo” e “dantismo”, ridotte a poli di formalismo e impegno civile – come una specie di struttura ideologica nella quale: «Dante politico, Dante padre dell’identità nazionale, Dante filosofo e profeta, Dante forgiatore di una lingua viva: il poeta e letterato, anzi letteratissimo, Petrarca è annichilito dall’emergere prepotente, e discriminante, del primato della politica e della rivoluzione, dalla fortissima domanda di un nuovo “ufficio della letteratura” (e quindi di un nuovo “ufficio” dell’intellettuale), che esplode nella tumultuosa esperienza giacobina. (…) Dante poeta di una poesia forte, virile, profetica, politica, civile. Dante poeta esule, mai incline al compromesso: come tanti esponenti dell’avventura risorgimentale. L’efficacia di questa interpretazione dantesca è subito formidabile, perché si proietta subito sul presente, connotandone le drammatiche vicende, disponibile a un immediato riuso e consumo attualizzanti, in chiave tutta ideologica».
La costruzione dell’identità italiana è stata soprattutto figlia di una creazione di un’estetica politica? Sembra proprio di sì. È difficile controbattere alla tesi di Alberto Mario Banti quando in “Sublime madre patria” racconta come sono andate le cose tra il Settecento e l’Ottocento mentre si costituiva l’idea di nazione e si combattevano le guerre di indipendenza: «Il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica». Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Giuseppe Verdi ma soprattutto Dante è stata la stella maggiore di questa costellazione. Una tesi che Quondam non solo riprende ma radicalizza quando afferma che il vero romanzo storico dell’Ottocento italiano è la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. La trama è sempre la stessa: «La Storia della letteratura italiana è il romanzo della nascita di un nuovo soggetto e del suo eroico riscatto progressivo: dalla perduta libertà (e virtù e onore) alla libertà (e virtù e onore) riconquistata, attraversando ogni tipo di umiliazione e sofferenza».
Un “romanzo” che però ha avuto un’influenza tale da aver messo di fatto in discussione l’autonomia della letteratura e dell’arte dalla politica in questa nostra discussione sull’identità italiana; ma su questo ci sono intere biblioteche di dibattito. Dante è stato modellizzato secondo questo schema. La sua “serva Italia, di dolore ostello” è diventato il prototipo per un canone di retorica patria di vittimismo e riscatto; la sua fama il mezzo con il quale poter trasformare le sue opere, soprattutto ovviamente la Divina Commedia in una sorta di I-Ching dal quale poter captare qualche citazione compresse a forme meno che proverbiali ad uso e consumo di una qualsivoglia causa. Dante può essere il baluardo contro l’Europa affamatrice della Merkel nella visione recente di un Diego Fusaro, perché nell’undicesimo dell’inferno scrive che «l’usura offende la divina bontade». Salvini lo usa per tacitare gli avversari, con la citazione «Un bel tacer non fu mai scritto». Matteo Renzi nel 2015 conclude il discorso per la fine del semestre italiano in Europa con «Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
L’abbiamo visto con il Dante neonazionalista. “Attualizzare” Dante produce effetti trash quando non intellettualmente disastrosi: Marco Grimaldi in “Dante, nostro contemporaneo” ne ha elencati diversi anche per rispondere alle fantasie interpretative che ogni tanto spuntano. Occorre tutelare Dante dai suoi lettori più furfanteschi, e certo quelli neonazionalisti sono in questo novero, e qui spesso non serve altro che Dante stesso; è chiaro come la struttura della sua opera sia essa stessa un avamposto contro le semplificazioni, le riduzioni, ogni forma di lettura univoca, o strumentale. Ma soprattutto si può riconoscere come la letteratura oggi – con una comunità accademica internazionale – è comunque meno facilmente strumentalizzabile. Oggi Dante è dappertutto – persino cardine di alcune tradizioni letterarie nazionali diverse da quella italiana (cosa sarebbe l’Irlanda senza Joyce o Beckett? Cosa sarebbero Joyce o Beckett senza Dante?) – ma non è tutto. Fare di Dante un reazionario, e quindi un tradizionalista, e quindi un neonazionalista, è un’operazione demenziale oltre che scorretta.
Per ritornare per esempio a Dante ci si potrebbe impegnare di più invece a esplorare le ricezioni in contesti che non prestano il fianco a questo genere di strumentalizzazioni. Non solo nell’ambito letterario, alto e basso, che vanno dall’“Inferno” di Dan Brown all’“Età del ferro” di J. M. Coetzee: ma in quelli del cinema, della cultura pop, delle arti. Una buona guida può essere “Metamorphosing Dante: Appropriations, Manipulations, and Rewrit-ings in the Twentieth and Twenty-First Centuries”, a cura di Manuele Gragnolati, Fabio Camilletti, Fabian Lampart, in cui davvero sembra che la storia della letteratura e dell’arte del Novecento e oltre, moderno e postmoderno, quasi vada a sovrapporsi con l’eredità dantesca: da Virginia Woolf a Thomas Mann, dalla beat generation a Carlo Emilio Gadda, da André Gide a Derek Jarman.
Ma si può innamorarsi di Dante anche seguendo questa fantastica diaspora di Dante, che non è avvenuta solo nel canone occidentale. In molti hanno mostrato, o hanno rivendicato, l’innegabile influenza plurisecolare che Dante ha avuto su artisti africani e asiatici e afroamericani, vedi Dennis Looney (“Freedom readers, “The African American Reception of Dante Alighieri and the Divine Comedy”) o Jason Allen-Paisant (“Dante’s Postcolonial Lives: The Commedia in Modern and Contemporary Writing from African and the African Diaspora”) tanto che è la stessa «associazione tra la rappresentazione simbolica della Firenze del XIV secolo e la condizione postcoloniale e post-schiavistica a essere frequente nella ricezione della Commedia», scrivono Simone Brioni e Lorenzo Mari in “Postcolonial Dante: Reading the Commedia in Mogadishu”. Questo non vuol dire, attenzione, farne un’icona in senso opposto. L’opera di Dante- come accade per la letteratura – può essere il palinsesto per andare oltre le storie identitarie e le retoriche nazionaliste, proprio per la capacità che abbiamo di pensare la scrittura letteraria come il precipitato di storie culturali differenti. Così l’uso politico di Dante diventa sensato quanto più andiamo a fondo nel riconoscerne il valore e il senso letterario e linguistico.

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