Paradiso: il lungo addio a Beatrice

Massimo Cacciari, “Robinson – La Repubblica”, 24 dicembre 2020

Nell’ultima cantica Dante si avvicina alla causa suprema della volontà divina. E restituisce nuovo senso all’amore

Possiamo dire in che cosa essenzialmente consista la straordinaria esperienza che compie l’homo viator, Dante, anima e corpo, la figura Dante, per dirla con Auerbach, nel Paradiso? Che cosa giunge a conoscere facendone reale esperienza? Ciò che il mondo «veder non può de la divina grazia» (XX,71). Per quanto «il fondo» di quest’ultima debba restare, in hoc saeculoocculto a qualsiasi sguardo finito, tuttavia ora essa si manifesta in tutta la sua straordinaria, paradossale potenza: chi, «giù nel mondo errante» (ivi, 67), la crederebbe capace di tanta misericordia? Ecco raccolti, nel ciglio dell’Aquila, esempi di somma giustizia, non solo l’humilis imperatore, Traiano, ma anche il troiano Rifeo, iustissimus perché caduto a difesa della sua città. Due pagani, innalzati nella Roma celeste. L’Amore compie il prodigio: vince ogni misura del giudizio e della volontà. Supervince ogni dottrina e ogni norma: ha fatto contemporanei a Cristo nello spirito Traiano e Rifeo, sconvolgendo l’“ordine del Tempo”, poiché di loro ha amato la perfetta giustizia. L’Amore «vince la divina volontate » (ivi,96). L’universo e il suo ordine sono appesi alla Sua volontà, ma è l’Amore ad avere sopra i Suoi atti la parola decisiva. Theos Agape. Dio ama la sua creatura più della propria volontà o del “metro” della propria giustizia, che non dovrebbe conoscere eccezione. Paradosso supremo: Dio agisce sperando la nostra salvezza, e perché si realizzi si lascia vincere da Amore. 

Potremmo concepire che questo supervincersi divino valga, escatologicamente, per tutti? Dante non lo ammetterebbe. L’Inferno è lì, spietatamente, a mostrarlo. E tuttavia come non avvertire che col Paradiso la domanda, il dubbio divengono inarrestabili? Lungo tutto il cammino dell’ultima Cantica corre un’eco lontana e potente, che contraddice quel “lasciate ogni speranza” e rende drammatica l’intera teologia dantesca. Tra Amore, Volontà, Giustizia nulla è “sistemabile” una volta per tutte. Amore tende a “precipitare” giù verso ogni misero smarrito nella selva – le Donne ne sono l’immagine e le messaggere. Ma Volontà deve resistere al suo impetus, seguire alle ragioni che la Giustizia avanza. Nessuna regola certa, sicura potrà stabilire a priori quale forza debba prevalere. Perché è prevalso Amore nel caso di Dante? Possiamo rispondere soltanto con congetture. Certo è soltanto che nel Paradiso si afferma che Amore è la sostanza di Dio, e che perciò la sua energia può giungere all’excessus e vincere tutto. Ma come si esprime tale Amore? Quale ne è il Verbo, che saremmo chiamati a comprendere per metterci nella sua sequela? Dio è somma Causa, Causa amante, finale e efficiente a un tempo, Amore incondizionato, e dunque libero da ogni necessità, Causa da nulla causata. Causa che si effonde nella totalità dei suoi effetti, senza che mai la sua potenza scemi. Effusivum sui: perfetto Dono, anzi: Per-Dono. Potremmo mai quaggiù esserne capaci? No — ma possiamo amarlo. Possiamo giungere ad amare questo Amore che è perfetta gratuità del donare. Anzi, non possiamo non amarlo nel momento in cui ne intuiamo la sostanza. Non amarlo equivarrebbe, infatti, a non amare l’essere incondizionato e libero, a non volere anche noi essere Causa a sua immagine. Se giungiamo a intelligere la sostanza dell’Amore divino, la nostra stessa mente è perciò costretta ad amarlo. L’agire del Suo Amore è sempre actu, in atto, come il nostro non potrà mai essere, e tuttavia se amiamo avendolo compreso, se il nostro amore è, in questo senso, intellectualisanche noi saremo davvero agenti, partecipi di quell’Agire incondizionato e libero, di quell’essere pura Causa, che coincide con l’Amore divino. Agenti in quanto mossi dal fine di raggiungerne la potenza – cammino interminabile, lungo il quale, però, crescerà il nostro amore, sempre più chiara si farà la intellezione della sua sostanza, la volontà di esserne espressione, per quanto finita. Più forte è perciò l’amore in itinere dell’Amore del beato, che ha finalmente “conquistato” il Paradiso.
Beatrice spiega a Dante la natura superessentialis di 
questo Amore, di come esso si sia dispiegato prima del tempo e al di fuori di ogni tempo, narrandogli la creazione dell’Angelo (IV,13-18). Dio non l’ha voluta «per avere a sé di bene acquisto»; nulla manca alla Causa, nulla al suo splendor, che oltrepassa ogni lumen quanto l’eterno è «di tempo fore»; da nulla può esser “compreso” ciò che in sé tutto abbraccia. Sussiste la Causa, unica vera Sostanza – e tuttavia proprio nel suo eterno sussistere, nel suo Nunc stans, essa si apre, si effonde, liberamente, per sua volontà (anzi: per quella volontà che è  vinta da Amore), e dona vita a nuovi amori, a nuovi spiriti amanti. La Sostanza non è “gelosa” del suo essere-eterno; la sua stessa eternità sussiste aprendosi, rivela il proprio splendore illuminando, la propria libertà liberando. Non si ama in verità che donando nella forma della perfetta gratuità – ma non basta: non si comprende la sostanza di questo Amore se non creando nuovi amori. L’Amore vuole che nuovi amori nascano, vuole che chi accoglie il dono si trasformi facendosi liberamente amante. L’opposto, si badi!, di quell’«Amor, ch’a nulla amato amar perdona»: questo Amore vuole che si conservi intatta la libertà dell’amato, vuole si creino amori altrettanto incondizionati del suo. La Causa amante anela di aprirsi in agenti-amanti a propria immagine. Tradirebbe la propria natura se volesse determinarli. Essa si è espressa, ha parlato, ha concesso a questo uomo la grazia di poterla intendere sostenendolo attraverso eccelse guide. La ha il viator finalmente compresa? Ha raggiunto il vero intelletto d’amore? Il viator ha dovuto sprofondare nella sostanza più nascosta del suo esserci, correre il rischio di smarrirsi di nuovo lungo l’impervio cammino, per bere finalmente alla fonte della sua luce. Ora egli intende che essere agenti significa essere amanti, e che amare è donare, e che donare è aprirsi a nuovi amori, lasciare che essi liberamente si esprimano, fuori di ogni logica di scambio o reciprocità. Ora intende che amare significa soltanto volere la perfetta salus dell’amato, voler essere per lui come una grazia.
L’inseparabilità di vicinanza e lontananza che richiede l’intelletto d’Amore si esprime con pathos sublime in quel momento decisivo della Commedia in cui Beatrice è d’improvviso rapita via da Dante e compare Bernardo, un «sene», per l’ultimo passo, «a terminar lo tuo disiro»  (XXXI,65 – : ma si badi che sono ancora una volta le Donne a muovere verso Dante le sue guide: «mosse Beatrice me del loco mio»). «Ov’è ella? Subito diss’io»; la domanda che Dante intendeva rivolgere all’amata gli rimane strozzata nella gola. Beatrice è volata via, a una distanza incommensurabile, maggiore di quella tra il più alto del cielo, dove si formano i tuoni, e un occhio che stesse negli abissi del mare. Lassù, a un’estrema lontananza, Dante la vede «che si facea corona/ riflettendo da sé li etterni rai» (ivi,71-72). Ebbene, questa lontananza, che pure è reale, «nulla mi facea»: non viene annullata, ma si accorda con l’altrettanto reale vicinanza che consente la comunicazione spirituale: «ché sua effige/ non discendea a me per mezzo mista» (ivi,77-78). Beatrice ha veramente lasciato il pellegrino, destinato oltre la visione che lo attende a far ritorno alla «umana famiglia» per praedicare 
Verbum. Ma è un distacco d’amore: l’amante Dante eternizza nella sua stessa memoria la bellezza della sua donna , bellezza che proprio nel lasciarlo si «trasmoda», e nella lontananza è prossimo a lei come mai prima. Ella l’ha tratto «di servo… a libertate» (ivi,85); questo compie infatti Amore: libera nuovi amori, ci rende agenti-amanti, amanti l’altro per farlo libero, amanti la speranza di libertà che costituisce l’anima e la sostanza dell’essere di ciascuno. Questa è la grazia che Beatrice gli rivela pienamente ora che vola al suo cielo, ora che è lontana. Da questa stellare lontananza, il suo riso è prossimo all’anima di Dante, fatta «sana» da lei, di una prossimità inseparabile. «Così orai; e quella, sì lontana,/ come parea, sorrise e riguardommi» (ivi,91-92, c.n.).
Dante rivive, ri-corda, l’intera sua vita in questo Riso insieme alla missione che ancora lo attende. È pronto ora a incontrare la Donna, Maria, che esprime lo stesso Amore di Dio. Beatrice l’ha fatto libero e amante. Ella resterà nel più profondo della sua anima, drammatica sin-fonia di vicinanza e lontananza estreme.

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