Canto XXXIII

Giusto dei Menabuoi, Cupola del Battistero di Padova, 1375-1378

La videolezione di Andrea Cortellessa. CLICCA QUI.

Luca Serianni legge e spiega il canto XXXIII del Paradiso. CLICCA QUI.

Roberto Benigni spiega il canto XXXIII: parte 1.

M. Apollonio, Maria, Enciclopedia Dantesca Treccani

Bernardo di Chiaravalle (fr. Clairvaux). Voce dell’Enciclopedia Treccani:

“Dottore della Chiesa, asceta, organizzatore, scrittore (Fontaines-lès-Dijon, 1090-91- Clairvaux 1153); di nobile famiglia entrò (1112) nel monastero di Cîteaux, fondò nel 1115 l’abbazia di Chiaravalle e si dedicò all’incremento dell’ordine cisterciense, che difese (Apologia ad Guilelmum, abate di S. Thierry) contro le critiche dei cluniacensi, e di cui egli, fermo nel sostenere l’applicazione della regola di s. Benedetto (per es., nel De gradibus humilitatis et superbiae), può ritenersi il secondo, e principale, fondatore. Estese poi, dal 1126, la sua attività a tutti i campi della vita ecclesiastica. Prospettò i doveri dei vescovi anche di fronte alle autorità laiche (De moribus et officio episcoporum); pose i fondamenti teorici che giustificavano la guerra contro gl’infedeli e regolavano i nuovi ordini religiosi-militari (De laude novae militiae ad milites Templi, dedicato a Ugo di Payens, maestro dei templari, cui diede la prima regola); intervenne in numerose questioni disciplinari e in contese tra sovrani, assisté a numerosi concilî. […] Combatté come eretici Enrico il Monaco, Pietro di Bruys, Gilberto Porretano; ottenne la condanna di Abelardo (concilio di Sens, 1140). Energico difensore dei principî teorici e morali e dei diritti politici e materiali della Chiesa (egli fu il primo a esporre il simbolo delle “due spade”: la spirituale, della Chiesa; e la temporale, dipendente, in teoria, da essa, ma usata dal potere civile). […] Predicò la seconda Crociata (1146-47) e morendo lasciò l’ordine fiorentissimo, diffuso in tutta Europa. Fu soprattutto difensore ed esaltatore dei valori tradizionali; avverso alla dialettica e all’indirizzo speculativo; più che teologo in senso strettamente tecnico, oratore efficacissimo, asceta e mistico. Così i suoi sermoni, tra cui notevolissimi (oltre quelli in lode della Vergine, dai quali, pur non avendo egli accolto la dottrina dell’Immacolata Concezione, sono tratte molte delle lezioni liturgiche delle feste di Maria), quelli sul Cantico dei Cantici e il trattato De diligendo Deo (con la dottrina dei gradi dell’amore) sono fra i testi fondamentali della mistica cristiana occidentale. Attraverso essi il Doctor mellifluus (come fu chiamato) esercitò larghissimo e profondo influsso: è significativo a questo proposito che Dante abbia fatto dire a lui la grande preghiera alla Vergine nel Paradiso. Fu canonizzato nel 1174, proclamato Dottore della Chiesa nel 1830; festa, 20 agosto.

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Stelle: “la parola che chiude il poema è quella stessa che brilla alla fine delle prime due cantiche. Uscendo dall’inferno, quelle luci sono appena intraviste, lontanissime e pure infondenti speranza. Alla cima del purgatorio esse sono già divenute meta sicura, che si è pronti e vicini a raggiungere. Qui, al termine dell’ultima cantica, il poeta è come assimilato ad esse, fatto partecipe della loro vita celeste e del loro stesso splendore. Come è stato acutamente osservato, anche Virgilio chiude con una stessa parola tre sue opere (la I e la X Egloga e l’Eneide). La parola del poeta latino è «umbrae» (quelle ombre verso le quali l’anima di Turno precipita alla fine dell’Eneide); ad essa sembra rispondere quella del poeta cristiano, che dall’ombra del mondo antico – dove la morte non aveva riscatto esce alla luce della presenza divina nella realtà dell’uomo.” Dante, Paradiso, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, I Meridiani, I edizione, Mondadori, Milano 1991

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Vittorio Sermonti, Il Paradiso di Dante, c. XXXIII, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 612-614

“San Dante poeta dice e ridice a futura memoria: ‘ho visto della luce di Dio quel poco che m’era dato vedere; di quel poco ricordo il pochissimo che riesco a ricordare; di quel pochissimo non posso dirvi che il nonnulla che sono capace di dirvi, unicamente per grazia di Dio’.
Il nonnulla consta di tre visioni eterne, istantanee, simultanee e successive… com’esser possa, ignoriamo e ignora Dante:
a) visione della molteplicità del creato nell’unità del creatore;
b) visione del dinamismo trinitario della creazione perpetua nell’immutabilità del creatore;
c) visione dell’incarnazione del creatore.
Due millenni di poesia cristiana non hanno mai prodotto tanto scandalo di grandezza. Non c’è che prendersi il coraggio di leggere insieme quel che un uomo dal grande naso ha avuto sette secoli fa l’eroica spudoratezza di scrivere…

«Nel suo profondo vidi che s’interna (nell’abisso del Dio-luce vidi annidarsi), /legato con amore in un volume (compattato, rilegato dall’amore divino in un unico libro), /ciò che per l’universo si squaderna (quel che appare insomma nel disordine di fascicoli scollati: ‘squinternati’, diremmo noi)».
Cioè? Cioè, «sustanze e accidenti e lor costume» (nel dizionario filosofico della Sorbonne: «formae substantiales», «formae accidentales» e «habitus», cioè ‘modi delle loro congiunzioni’) quasi compressi e amalgamati insieme (conflati), per tal modo, che dir così non fornisce che un pallido barlume del vero. Il principio primo di questo amalgama (di questo modo) credo ch’i’ vidi (sono certo di aver visto), perché nel dirlo sento la mia felicità dilatarsi. […]
E insiste che, a contemplare quella luce, si diventa altri: «cotal si diventa, che diventa impossibile consentirsi di stornare lo sguardo da lei per altro aspetto (per guardare altro); dacché il bene, che è obietto (più che ‘oggetto’, ‘obiettivo’) della volontà, tutto in lei si compendia e raccoglie, e fuor di quella/è defettivo ciò ch’è lì perfetto». E la prima visione è consumata.
Consumata la prima visione (molteplicità del creato nell’unità del creatore), al resoconto della seconda siamo introdotti da un avviso domestico e scoraggiante: «D’ora in poi il mio linguaggio, non dico rispetto a quel che ho visto, ma anche solo rispetto al poco che ricordo, sarà più inetto e smozzicato di quello d’un bambino che bagni ancor la lingua a la mammella».

Il progresso delle stupefazioni celesti, a fronte delle quali abbiam visto il pellegrino della beatitudine farsi sempre più piccolo, sempre più prossimo alla nascita, qui tocca l’apice. […] Non si può dire di averlo visto [Dio], se non nella lallazione di un neonato.
«Non perché la luce viva ch’io contemplavo – emette il neonato mistico – si diversificasse, essendo, anzi, immutabilmente identica a sé, ma perché, nel contemplare, la mia vista s’avvalorava (cresceva d’ardire e potenza), quell’unica luce, mutandom’io, a me si travagliava (si alterava, sembrava turbarsi ai miei occhi). Così, ne la profonda e chiara sussistenza/de l’alto lume parvermi tre giri/di tre colori e d’una contenenza… (tre sfere o dischi, insomma, di colori diversi e della medesima dimensione, che noi dobbiamo immaginare perfettamente sovrapposti, sebbene questo – anzi, proprio perché questo – ci impedirà di immaginarli)… e una sfera pareva riflessa da un’altra come arcobaleno da arcobaleno (iri da iri), e la terza parea foco/che quinci e quindi igualmente si spiri (emesso ed alimentato tanto dalla prima quanto dalla seconda)».
Come sappiamo bene, la «spiratio» del Padre e del Figlio è lo Spirito Santo (o ‘Santo Spiro’, ‘respirazione di Dio’); e l’immagine fiammante dei tre dischi distinti e indistinguibili illustra il dinamismo amoroso delle tre persone nell’immutabilità del Dio uno, secondo i dettami della mistica vittorina e della speculazione universitaria, balbettandone – sia consentito anche a me il sollievo della ripetizione – l’inimmaginabilità.
Ma il poeta non si dà pace: «Oh quanto è corto il dire e come fioco/ al mio concetto! E questo, a quel ch’i’ vidi,/ è tanto, che non basta a dicer ‘poco’». Insomma, di quel che ha visto non ha capito quasi nulla, e di quel quasi nulla è riuscito a dire una fievole inezia. E lo ripete, e lo ripete, e non si dà pace. Finché non s’immola all’estrema invocazione: «O luce etterna che sola in te sidi (che nella tua unicità risiedi, consisti, sei), /sola t’intendi, e da te intelletta/e intendente te ami e arridi!». […]
Qui la seconda impossibile visione ne gemma una terza, invisibile.
«Quella circulazion che si concetta/pareva in te come lume reflesso (quella sfera che in te, luce di Dio, appariva concepita – insieme, inclusa e generata – come riverbero luminoso: cioè, la seconda sfera-persona della Trinità), alla protratta investigazione dei miei occhi, dentro da sé, del suo colore stesso/mi parve pinta de la nostra effige (mi si manifestò dipinta al suo interno della figura umana)».
Invisibilmente campito nel Figlio di Dio, col suo stesso colore di fondo, si ostende all’uomo Dante il Figlio dell’Uomo: suo fratello, suo identico, lui.
E lui, l’uomo Dante, totalmente assorto e assunto in quella effigie, ancora si accanisce a decifrarla, concettualizzarla, misurarla, come lo studioso di matematiche (geomètra) che disperatamente si concentra a misurar lo cerchio (a calcolare la quadratura del cerchio) e, per quanto s’arrovelli, non trova il principio, l’algoritmo di cui ha bisogno. Così era lui, l’uomo, che in quella visione mai vista voleva vedere come si convenne/ l’imago al cerchio, e come vi s’indova: come, insomma, l’immagine dell’uomo – sì, la quadratezza della sua carne – si adattasse alla circolarità di Dio, insediandovisi.”

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Antonio PreteL’amor che move il sole e l’altre stelle, in Doppiozero, 7 novembre 2016

Un verso, un solo verso. Ramo di un albero, filo di una tessitura. Oppure, petalo di un fiore, se vogliamo rivolgerci alla classica contiguità della poesia con la rosa. Staccare un verso dal corpo di suoni e di silenzi cui appartiene, dall’onda del ritmo che in ogni parte di quel corpo trascorre, è come prelevare poche note da una composizione musicale. Un’azzardata sottrazione. Un arbitrio. Eppure ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, e anche nella loro traduzione in altre lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: schegge che si trasformano in sorgenti luminose, frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. 

Un verso, un solo verso, può corrispondere, sul piano della poesia, a quello che nel campo della prosa Leopardi chiamava “pensiero isolato”. Nello Zibaldone lampeggiano alcuni “pensieri isolati”, sottratti all’ordine discorsivo della trattazione: la loro densità di teoresi è più forte di ogni diffusiva analisi. 

Così, accade anche che alcuni versi isolati, pur sottratti alla loro organica appartenenza, finiscano col vivere di una vita propria. Richiamano, per analogia, quel sapere che, nella “cura di sé” consigliata dagli antichi filosofi, era compendiato nel “detto memorabile”, nei “veridica dicta”, per usare l’espressione di Lucrezio. Trattenere quei detti nella propria memoria era come dotarsi di un prontuario che all’occasione poteva suggerire modi di comportamento, orientamento per le scelte di vita. Lessico interiore di una morale. Allo stesso modo, trattenere singoli versi nella propria memoria è custodire un serto di parole che non riposano nella quiete di un senso o nell’armonia di un suono, ma fanno del senso un suono e del suono un senso e per questa loro singolare virtù o acrobazia o grazia irradiano un pensiero aperto, irriducibile a un solo significato, interrogativo. 

Di tali versi soli, e splendenti nella loro solitudine, dirò in questa rubrica. Ogni volta un verso ci inviterà a sostare alla sua ombra: per un pensiero al margine, per una annotazione esegetica, per una considerazione che può avere a che fare, più che col commento, con una libera interrogazione, e anche con quel divagare cui invita proprio quella conoscenza per via fantastica che è la lingua della poesia. 

Di verso in verso: un cammino nel giardino della poesia. Un giardino nel quale si potrà sentire talvolta, insieme con il profumo dei fiori, il tragico della vita. 

Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. E un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia. 

L’amor che move il sole e l’altre stelle 

L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa: 

     ma già volgeva il mio disio e ‘l velle 

     sì come rota ch’igualmente è mossa 

     l’amor che move il sole e l’altre stelle. 

L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.

Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.

Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione. In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”. È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

 
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